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Ancora una volta sala gremita al Petruzzelli per la sesta Lezione di Cinema del Bif&st. Dopo la proiezione di Heimat Hermännchen, Klaus Eder, segretario generale Fipresci, ha presentato Edgar Reitz, regista dell’acclamata serie di Heimat ed esponente della corrente del nuovo cinema tedesco, fondata con il Manifesto di Oberhausen. “Negli anni ’60 era necessaria una nuova cinematografia. La mia era la prima generazione cresciuta in un contesto democratico, una generazione che voleva prendere le distanze dal cinema nazista. Il nostro motto era: il cinema dei padri è morto! Il nostro orizzonte era la nostra patria – ha spiegato Reitz; volevamo fare dei film sulla nostra realtà”. E a proposito dei suoi riferimenti dice: “Non avevamo nessun esempio nel nostro paese, così la mia ispirazione sono stati la Nouvelle Vague francese, il Neorealismo italiano. Conoscevo tutti i film di Vittorio De Sica e sapevo a memoria i film di Roberto Rossellini: ha caratterizzato tutta la mia opera e lo continua a fare”.
Edgar Reitz ha ripercorso l’inizio della sua carriera, da quando era ancora uno studente: “Inizialmente avrei voluto fare l’ingegnere come desiderava mio padre, ma poi mi sono iscritto alla scuola di cinema, dove ho studiato molto l’aspetto tecnico dei film”. Uno dei suoi primi lavori è stato il cortometraggioVelocità: “Un’analisi tecnica del fenomeno della velocità. A Berlino, quando fu eretto il Muro, mi resi conto che si trattava di un evento anacronistico rispetto al mondo globale, dove invece vigeva la mobilità. Il corto Velocità è dunque in perfetta antitesi con il Muro”.
A proposito del suo capolavoro, Heimat, Reitz ha ricordato di aver scritto, in un primo momento, la storia della sua famiglia partendo dai nonni e dando vita a un manoscritto di circa 100 pagine. “Quando poi l’ho tradotto in film, decisi di prenderne le distanze: Heimat è fittizio, non c’è nessuna figura che sia un ritratto diretto della mia famiglia, ma inevitabilmente ci sono dei caratteri in comune”. Reitz ha poi sottolineato l’importanza della sceneggiatura: “È il punto di partenza per formulare i pensieri. È un prodotto letterario espresso a livello linguistico, ma è un prodotto non finito […] poi occorre adattare la sceneggiatura alle persone”. Ma, soprattutto, occorre “amare i personaggi dei propri film. Tutte le figure che rappresento all’interno di un film, le amo. Solo così posso esprimere in maniera ottimale le loro contraddizioni e le loro ambivalenze”.
Il regista tedesco, infine, espone la sua visione del cinema: “Ogni film mette nella condizione di salvare gli uomini e di renderli immortali. Tutte le arti – conclude Reitz – hanno a che fare con la salvezza e il mantenimento di ciò che nella vita vera muore. Il cinema può bloccare gli esseri umani nell’immortalità”.
In serata, sempre al Teatro Petruzzelli, Edgar Reitz riceverà il Fipresci 90 Platinum Award.