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“Non ho legami profondi con la mitologia Western, e arrivo dopo molti altri registi che l’hanno affrontata in maniera diversa. Sergio Leone e John Ford, tanto per dirne un paio. Io, il Western, l’ho avvicinato dai margini, costellandolo di piccoli momenti privati, intimi, da racconto di iniziazione: la vita intima dei cowboy, l’igiene dentale, persino la masturbazione.”
Così Jacques Audiard racconta il suo neonato rapporto col Western, di cui non è ammiratore sfegatato.
I Fratelli Sisters, al cinema dal 2 maggio con Joaquin Phoenix, John C. Reilly e Jake Gyllenhaal, è il racconto di formazione di due criminali, fratelli e adulti, che in realtà non sono ancora maturati. “Charles e Eli Sisters sono come bambini: litigano, discutono, fanno peti e campeggi nella natura.” La maturità arriverà dopo e con essa, forse, anche un briciolo di ritrovata umanità.
Per Jacques Audiard quest'ultimo film, distribuito da Universal e in anteprima in questi giorni al festival del Nuovo Cinema Francese Rendez-vous, è una doppia novità: oltre a essere il suo debutto con il western, rappresenta anche il primo lavoro in inglese e il secondo, consecutivo, in una lingua non sua.
“Forse” argomenta lui, al riguardo, “voglio distanziarmi da una lingua conosciuta, per modificare il mio rapporto con gli attori e con le loro interpretazioni. Come se avessi spontaneamente abbandonato un approccio più intellettuale, per uno più musicale.”
Il soggetto è ispirato al romanzo dello scrittore canadese Patrick DeWitt (omonimo in lingua originale, Arrivano i Sister da noi, edito da Neri Pozza per la collana Bloom). “Me l’ha proposto John C. Reilly, al Festival di Toronto, di adattare questo libro. Se l’avessi scoperto io stesso, l’avrei letto volentieri ma non l’avrei considerato come base per un film, mi sarebbe sembrato un western impossibile da realizzare.”
L’attore americano voleva fortemente questo ruolo: Eli Sisters, fratello di sangue e di sparatorie di Charlie, interpretato da un feroce Joaquin Phoenix. “John C. Reilly ha accumulato, nella sua carriera, molti ruoli secondari come caratterista, e il sistema americano può essere duro e claustrofobico quando si vuole fare il salto da un registro all’altro. Per farlo, si è rivolto a un regista straniero, e l’ha proposto a me.”
Ciò non significa che Audiard non abbia messo tutto se stesso nella realizzazione del film: “Abbiamo immaginato una versione completamente notturna, con i personaggi che appaiono e scompaiono nel buio come vampiri, una versione in bianco e nero, poi una rubata a un immaginario più fiabesco, con colori desaturati, matite chiare e sfondi pastello. Sono tutti esempi di stilizzazione delle immagini.”
C’è anche la cosiddetta “mano nera”, l’espediente di Audiard di simulare apertura e chiusura della palpebra attraverso l’uso della sua stessa mano, davanti alla telecamera. “Molto tempo fa, agli esordi, realizzavo film con strumenti basilari, che non permettevano alcuna raffinatezza. Così, per fare le dissolvenze usavo la mia mano per simulare l’effetto iride. Ora faccio la stessa cosa, anche se con strumentazione superiore.”