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Settimo giorno scoppiettante quello di ieri alla Berlinale all’insegna della diversità. In corsa per l’Orso d’Oro c'era la Cina con una commedia d’azione, la Romania con un western in bianco e nero e il nuovo Peter Greenaway che mette in scena un omaggio al pioniere del cinema sovietico Sergej Ejzenštejn.
Il lavoro di Peter Greenaway, Ejzenštejn in Guanajuato, è, nelle parole del regista ”un omaggio d’amore al genio di Ejzenštejn“, di cui, tuttavia, poco si sa su uno degli episodi che più ne hanno influenzato l’arte e la vita. Si tratta del suo soggiorno in Messico programmato per girare Que Viva Mexico!, la pellicola che doveva raccontare in forma epica la storia del Paese, dai Maja agli Aztechi fino alla rivoluzione del 20° secolo.
Il film racconta quel viaggio organizzato dalle autorità russe, in testa Stalin, per dare la possibilità al regista di girare la pellicola Que viva México. È il 1931. Greenaway tratteggia Ejzenštejn come un artista eccentrico, che arriva in terra straniera con l’usuale tracotanza dell’acclamata star internazionale. Ejzenštejn, che all’epoca aveva trentatré anni, fino ad allora aveva girato solo tre film, che però avevano cambiato il mondo. In arrivo da Hollywood, che lo rifiuta a causa di una caccia alle streghe iniziata molto prima del maccartismo negli anni cinquanta, e con le pressioni di Stalin per riaverlo in patria che cominciano a farsi sentire, Ejzenštejn sbarca a Guanajuato. La vanità scema molto presto, in compenso iniziano i problemi con il suo finanziatore americano (l’Unione Sovietica non poteva permettersi i costi di una produzione del genere), lo scrittore Upton Sinclair. Ejzenštejn intanto si innamora del Messico, e della sua guida, il messicano Palomino Cañedo. L’immersione nella cultura messicana da parte del regista russo è totale. Sullo sfondo della Belle-Epoque declinata al barocco, l’Unione Sovietica è lontana, così come Stalin, ed è in un tripudio di sensualità e credenze, di mondo nuovo e modi nuovi, che Eisenstein si perde, e soprattutto perde la sua fede in Stalin e nella Rivoluzione di quattordici anni prima. Da regista concettuale, a filosofo della condizione umana: potrebbe riassumersi così il cambio profondo e doloroso del regista nel suo periodo messicano.
Peter Greenaway esplora con tratto sapiente la mente di un genio creativo alle prese con le paure dell’amore, del sesso, della morte. Ottimo l’attore finlandese Elmer Bäck (The Spiral) che affronta con coraggio un ruolo ambizioso senza essere una star, “da clown, o bambino non cresciuto” (così l’attore). Il vecchio orso inglese del cinema d'essai Greenaway tratta - non senza malinconia - il tema del processo creativo di un regista. Greenaway da vent’anni almeno, dai tempi di Il Cuoco, Il Ladro, sua Moglie e l’Amante, è uno dei narratori cinematografici più virtuosi sulla piazza. Il nuovo Ejzenštejn si riallaccia a quel virtuosismo, e aggiunge l’espressionismo e il montaggio velocissimo del maestro russo. Ma arriva ancora un po’ più a fondo, ad accendere la luce sugli abissi aperti dai tormenti di un anima alla ricerca del senso della vita. Le scene erotiche sono invece kitsch e rischiano di scivolare nel melodramma, per fortuna sono poche. L’esperienza messicana, pur finita dolorosamente - la longa manus russa costringe Ejzenštejn a lasciare il Paese e l’amato - contro la sua volontà, infonde tuttavia nell’arte del cineasta una visione completamente nuova. Dopo l’ideologia e la propaganda perfetta dellaCorazzata Potëmkin e Ottobre, nell’arte di Ejzenštejn, dopo il Messico, troverà posto l’umanità.