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Parole forti, e vere, quelle di Guzmán a margine della proiezione di El botón de nácar, accolto dagli applausi dei giornalisti. A giudizio del regista, autore di bellissimi lungometraggi come La batalla de Chile (1975), El caso Pinochet (2001) e Nostalgia de la luz (2010), è arrivato il momento per il Cile di mettersi di fronte alla sua storia. Il documentario di Guzmán ha il respiro lungo. Il tema è l’acqua, presenza e sostanza quasi divina dell’universo. Suggestivo e scientifico. Il Cile è un Paese d’acqua, con la costa più lunga del mondo (oltre 4500 chilometri). Eppure, un Paese che non è mai diventato patria di navigatori, né che ha mai veramente accettato di essere affacciato sull’oceano più grande al mondo. Un Paese all’incontrario, verrebbe da dire, parafrasando il senso di questo film. L’acqua avvolge il racconto che Guzmán vuole molto esplicito. "Sono quarant’anni che parliamo di dittatura, ma senza superarla“.
Forte la denuncia sui media cileni. "Abbiamo un governo che sovvenziona quello che vuole. E quello che non vuole non passerà mai nelle TV né raggiungerà mai le sale. Questa non è né libertà di stampa, né di espressione, ma il suo contrario“. Indios delle antiche tribù (sconosciute) della Patagonia e desaparacidos di Pinochet: a entrambi è stata tolta la memoria.
Perché l’acqua come leit motiv? "L’acqua è in tutto il sistema solare, e nell’universo di cui è la principale fonte di vita. Per gli antichi indigeni cileni, arrivati in sudamerica oltre 10000 anni fa, la parola per dire Dio era acqua. Un’altra cosa è l’utilizzo che ne fanno gli uomini. Agli indios gli spagnoli l’hanno tolta, rinchiudendoli nel deserto in campi di lavoro, nell’oceano Pinochet ci ha fatto sparire migliaia di vittime”. El botón de nácar è il secondo film cileno in concorso quest’anno alla Berlinale. Oggi tocca a Pablo Larraín, con El Club. Nonostante tutto, sta benissimo il cinema cileno contemporaneo.