Il documentario Faith di Valentina Pedicini è una delle opere presentata durante la Settimana della critica del Festival di Berlino. Per girarlo la regista ha vissuto cinque mesi in un remoto monastero marchigiano con quelli che si definiscono Monaci Guerrieri della Luce. Dal 1998 la comunità tra preghiere e kung fu si allena e consacra corpo e anima in vista di un bene superiore.

“La chiave di Faith è stato il tempo”, afferma la regista. “Ho vissuto con la troupe cinque mesi all’interno della comunità. Lavoravamo circa 15 ore al giorno per girare un’ora. Siamo stati protetti dalla telecamera pronti a cogliere ciò che accadeva di fronte ai nostri occhi. In realtà Faith è due lavori insieme: uno è quello compiuto, l’altro, che non si farà mai, è quello su di noi nel tentativo di fare questo film”.

Faith

In che modo vi ha difesi la telecamera?

“La macchina da presa è stata lo strumento per delimitare il perimetro di divisione tra noi e loro. La macchina da presa è stata per noi la nostra salvezza. La possibilità di spegnerla e uscire dopo 15 ore di riprese ci ha dato ogni giorno la forza di continuare”.

Come è possibile accettare una realtà del genere?

“Sono entrata in questo mondo e in questo film con una domanda: come si decide ad un certo punto della propria esistenza di abbandonare il mondo e la propria identità per riporla nelle mani di qualcuno, in questo caso del maestro? Ma ho dovuto fare anche un lavoro di chiarificazione della verità. Si tende a pensare che chi faccia un passo del genere sia sempre persone in difficoltà. Invece qui i ragazzi e le ragazze che si sono avvicinati a questa comunità provengono quasi tutti dall’alta borghesia senza apparenti problemi familiari. Questo rende la domanda del perché ancora più grande. Io non ho ottenuto una risposta. Ho conosciuto da vicino le motivazioni e un mondo radicale stranissimo, non so se Faith risponda a questa domanda centrale, come è possibile che venti persone della mia età aderiscano a questo mondo, ma sicuramente ho fotografato quel mondo”.

La questione etica per Pedicini è stata particolarmente difficile. “Non aderisco a molte delle cose che ho visto che suscitavano spesso una reazione negativa o di rifiuto. La domanda era costante: continuo a girare? Spengo la camera? Dichiaro la mia posizione? La chiave è stata essere molto sincera con il maestro. Gli ho detto all’inizio delle riprese di volere la assoluta e massima libertà. Questa chiarezza iniziale ha funzionato”.

A quali regole vi siete sottoposti?

“Il primo grande trauma è stato doverci vestire di bianco all’inizio. Accettare quella regola significava entrare in quel mondo e accettarne le regole. Il bianco è simbolo di purezza ma è una regola imposta dal maestro. Una forma di controllo. Le altre regole erano più tecniche. Perché per esempio avevano cani addestrati all’attacco e ho dovuto conquistarmi durante i cinque mesi, la libertà, il privilegio, di potermi muovere all’interno del monastero in libertà”.

Quali motivazioni dietro questo progetto?

“Essenzialmente umana. 11 anni fa avevo già girato del materiale su di loro. Dopo 11 anni per loro il mio ritorno è stato emotivamente molto forte ed ha creato la prima crepa che mi ha permesso di entrare in contatto con il maestro. La comunità non vedeva persone esterne da anni. Il maestro era convinto che il signore avesse deciso quel mio ritorno. E quella è stata la prima questione etica affrontata. Perché io potevo sfruttare la disposizione del maestro da una posizione di forza. E invece ho cercato di smontare da subito quell’idea e far capire a tutti che la mia era una decisione personale e professionale non derivata dalla Divina Provvidenza. Credo che lui avesse voglia di traghettare per la prima volta la vicenda della comunità all’esterno del monastero.

Ma anche lì la chiarezza è stata fondamentale, ho avvisato il maestro che il cinema è un’arma potentissima e che quindi io avrei raccontato la verità senza filtri. Il risultato sarebbe potuto essere violento e molto duro. Avevo la sensazione che lui mi avesse dato il permesso di filmare un testamento. Alla base di questo testamento c’è una crisi della fede nei membri della comunità. Il lavoro è stato poi facilitato dalla fiducia che la comunità ha sviluppato nei nostri confronti. Sapevano che non stavamo girando per giudicarli. L’assenza del giudizio ha mantenuto un equilibrio”.

Il rapporto fortissimo con il corpo rende la comunità quasi un gruppo di attori. “Ho atteso che si spogliassero di quella performance continua. Li ho tolti dal palco in cui si trovavano e riportati a terra, se non dentro, almeno vicini a sé stessi”. Come vive la comunità?

“In un regime di semi povertà. Quasi francescana. Hanno orti, raccolgono i materiali in scadenza nei supermercati, hanno animali”. Tentazione di aderire? “Mai, anzi la tentazione più grande è stata di fuga, di abbandonare”.

Che tipo di guerra stanno preparando?

“Secondo loro è una guerra che arriverà e dalla quale intendono salvarci.  Ma la guerra più interessante e quella che intraprendono con loro stessi”.