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Elio Germano ha trentacinque anni ed ha girato trentacinque film. Si è adattato con fatica al mestiere dell'attore, non perché non gli piaccia farlo, soltanto perché non ama ciò che sta attorno al cinema. Lo ha ribadito a Lecce, dove il Festival del Cinema Europeo gli ha conferito un Ulivo d'oro alla carriera. Commenta anche i recenti David di Donatello: «Sono felice per Genovese, Mainetti e Garrone. Ma si scommette sempre su qualcosa che ha già funzionato. Cinema e arte dovrebbero uscire da questo meccanismo della scommessa. Il cinema dovrebbe produrre stupore e novità nelle piccole e personali rivoluzioni. Invece, si premiano le cose che si notano di più, quelle più appariscenti. Certo, c'è un tipo di cinema fatto per incantare il pubblico, altri film hanno però finalità diverse, forse più alte».
Lei come ha scelto i suoi?
«Lo confesso, in modo molto egoistico. Perché girare un film per me va ben al di là di sapere in quante copie uscirà, chi è l'attore protagonista o quanto mi pagano. Per me è prima di tutto una possibilità di crescere in termini di umanità».
Molti dei suoi personaggi parlano e affrontano crisi di vario genere.
«Non sono mai negativi, però. La parola crisi, infatti, contiene nel suo etimo il significato di crescita: si presuppone che questa risalita sia prevista, dopo essere precipitati. Comunque non mi interessa certo la crescita economica, ma quella umana, impostata su un ventaglio di valori diversi.
E dimostrano forse più anni del reale.
«Mi sento vecchio dalla nascita. Amo i vecchi. Non sono padre, non sono preparato ad esserlo, ma mi sento preparatissimo per essere nonno. Purtroppo ho solo l'indole e non ancora la saggezza degli anziani».
Fa il regista di teatro, ma non ancora quello di cinema.
«Non è mai remunerativo fare il regista di teatro, ma dona una libertà con la quale riesco sempre ad esprimermi. E poi, sul palcoscenico posso sbagliare da solo. Una regia di cinema sarebbe una possibilità ultima ed estrema, la assumerei soltanto se fossi chiamato a proteggere il lavoro degli attori».
Ha appena finito di girare con Gianni Amelio La tentazione di essere felici.
«Il film è molto liberamente ispirato al romanzo omonimo di Lorenzo Marone. Se ne parlassi, Amelio mi telefonerebbe nel giro di pochi istanti, quindi taccio, non mi assumo alcuna responsabilità».
Lo può fare, invece, per il suo San Francesco?
«E' un film francese, si intitola L'amico - Francesco d'Assisi e i suoi fratelli, il regista è Renaud Fely alla sua opera seconda, con Jérémie Renier nei panni di Frate Elia e Alba Rohrwacher in quelli di Santa Chiara. Protagonista non sono io, che interpreto il Poverello, ma la primissima comunità francescana, che vive e subisce, agli inizi del XIII secolo, difficoltà di ogni genere. Il film si concentra soprattutto sul gruppo di "fratelli" che seguirono Francesco e sulla dimensione anche politica che dovettero affrontare».