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Un ironico ritratto femminile, un'altra pellicola monumento a Isabelle Huppert, per la quale è stato pensato, scritto e diretto, il francese L'avenir (Things to Come), seconda pellicola presentata oggi in concorso alla Berlinale, convince per la misura e l'eleganza. La regista francese Mia Hansen-Løve si è affidata a una coproduzione franco-tedesca, e ha fatto bene. Perché la sua poteva essere facilmente una piccola storia fatta con poco e lasciata interamente agli attori, e invece è diventato un grande film per un grande pubblico, con grandi scenari e ottime ambientazioni, che fanno bene all’eccellente lavoro della Huppert, e degli altri protagonisti Roman Kolinka, Edith Scob, e André Marcon.
Dopo i drammi epici di Lampedusa in Fuocoammare di Rosi in apertura di giornata, L’Avenir ci catapulta nei drammi ovattati dell’alta borghesia parigina. Huppert è l’elegante intellettuale Nathalie, una filosofa scrittrice e insegnante. Ma la sua vita intellettuale borghese è sull’orlo di una crisi esistenziale. La madre si lascia morire, il marito la lascia, i figli grandi sono via. Confrontata con un’improvvisa, sconosciuta libertà, Nathalie deve, per sopravvivere, riscoprie sé stessa e reinventare un futuro.
La regista Hansen-Løve si è detta entusiasta delle riprese e del lavoro svolto nello stato federale di Hessen, nei pressi di Francoforte. "Il film - dice - è una biografia familiare attaccata alla realtà. I miei genitori, del resto, sono entrambi filosofi e professori". La realtà, nel mondo di Nathalie, è fuori dalla porta di casa. La vita all’interno, invece, è fatta di sogni, pensatori e libri. "Una donna che trova improvvisamente risorse mai conosciute" così la Huppert. "Una donna contemporanea alle prese con sfide contemporanee". Sì. Questa sceneggiatura però l’abbiamo vista identica in metà Truffaut e in tutto Chabrol. La vita in crisi a Parigi, il dramma elegantemente messo in scena, interni alto borghesi, la casa di campagna (regolarmente in Bretagna) metafora della lontananza dalla vita, da sé, della mancanza, del desiderio deluso o vissuto. L’Avenir è bello, ma è anche un film già visto.
"Ma davvero vogliamo ancora parlare di cinema francese come di una categoria omogenea e classificabile? È impossibile. È un film molto francese, sì, ma che non vuol dire che il cinema francese si ripeta. La scoperta della libertà della protagonista entra a far parte di un tableaux di ritratti feminili iniziato con Flaubert e passato per Simone de Beauvoir". La Huppert è musa: poco spazio ai sentimenti, niente traccia di emozioni negli occhi. Si immagina Isabelle Huppert che una donna reale reagirebbe con tanto autocontrollo alla serie di catastrofi personali che colpiscono la protagonista? "Io sono una donna reale, e reagisco così. In questo caso proprio come la protagonista". Cliché? "Una giornalista americana in conferenza stampa ci ha detto che è un cliche far vedere donne che lavano i piatti a mano in una casa di campagna. Ma noi i piatti li laviamo spesso a mano. È il momento perfetto, dopo cena, per le confidenze tra donne“. Per la Huppert quello del film è un messaggio di speranza per chi, a tutte le età, si ritrovi a ricominciare. "Le risposte ci sono già. Sono dentro di noi".