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Castiglione Cinema 2019 ha avuto il grande piacere e onore di ricevere tra gli ospiti il maestro Pupi Avati, a presentare per la prima volta in sala Il fulgore di Dony (film per la TV del 2018). Il regista, insignito del Premio Castiglione Cinema, ha poi incontrato il pubblico, rispondendo alle sue domande e a quelle di Daniele Bellasio, direttore della comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, e Maurizio Crippa, vicedirettore de Il Foglio.
Gli intervistatori cominciano proprio da una presentazione del grande artista, artista peraltro ampiamente multitasking: “Scrittore, regista, musicista” esordisce Bellasio, “Cosa ne pensa il maestro Pupi Avati dei contatti con la spiritualità di queste arti?”.
“C’è un momento, di pochi minuti” spiega Avati, “quando stiamo per addormentarci, in cui entriamo in una dimensione di attesa, in cui sappiamo che prima o poi il mondo si accorgerà di noi, capirà quanto siamo eccezionali: tutto quello che non è ancora accaduto, accadrà. Penso che il nostro Paese abbia perso questa capacità, di promettersi qualcosa di straordinario. Ho scritto un’autobiografia che si chiama La Grande Invenzione, per me la vita va prima immaginata, poi vissuta”.
“Anche il suo ultimo film” commentano gli altri due, “Il fulgore di Dony, si lega a questa tematica”.
Il maestro risponde che “la ragionevolezza non mi è mai piaciuta. Dony invece è giovane e lancia se stessa in maniera irragionevole”. E argomenta: “Conservo una fotografia di me a 14 anni. Ero già brutto, ma non sono mai stato me stesso come in quella foto. A quell’età, attorno a te hai 360° di possibilità”.
A quel punto, Bellasio: “Il cinema, quindi, è questa magia, la soglia di questo presente da amare. Un suo esimio collega, Tarkovskij, diceva che più importante della verità dell’arte è la verità della vita. Il cinema è cercare quel qualcosa di vero e fissarlo sulla pellicola?”.
“Tu hai studiato il neorealismo, sei molto attaccato alla realtà, io no” replica Avati “Una volta si andava al cinematografo per il cinematografo, non per il film. 8 e mezzo di Fellini mi ha cambiato la vita, ho capito il ruolo del regista. Facevo il venditore di pesce surgelato per conquistare la ragazza più bella di Bologna. Ho cercato di convincere tutti quelli del Bar Margherita a vederlo, e non è stato facile. Quando ci sono riuscito, abbiamo deciso di provare a fare un film insieme”.
A questo punto, la curiosità del pubblico è alle stelle. Per fortuna, il maestro Pupi Avati sembra determinato a soddisfarla: “Mandammo a tutte le produzioni un copione sessantottino: Balsamus, l’uomo di satana, più sessantottino di così non si poteva! Un giorno, nella buca delle lettere, finalmente una risposta, e per giunta di Ennio Flaiano, sceneggiatore dei grandi film di Fellini! Emozionatissimi, tutti insieme abbiamo aperto la lettera, diceva: Non scrivetemi più!”.
E prosegue: “Roma ci aveva rifiutati. Ma chi fa il cinema dà credito all’impossibile, è predisposto all’irragionevolezza. Trovammo un finanziamento imprevedibile a Bologna, un albino vestito di Shantung, con una penna d’argento, ci staccò un assegno dopo l’altro: sedici assegni sul tavolo da dieci milioni cadauno. Nel 1967, 160 milioni! Pensavamo che arrivasse la polizia ad arrestarci. La mattina dopo eravamo tutti in fila alla banca, come per una rapina”.
Conclude, infine: “Al primo ciak, mi resi conto di aver fatto un terribile errore, che non ero all’altezza, mi cedevano le ginocchia. Franco Delli Colli e Roberto Brega (direttore della fotografia e operatore di camera del film, ndr) mi prendono sottobraccio e mi dicono: Non ti preoccupare, il film te lo facciamo noi!”.
Proprio Laura Delli Colli, figlia di quel Franco e oggi Presidente del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici Italiani (SNGCI), consegna a Pupi Avati il Premio Castiglione Cinema, commentando con grande emozione: “Conosco Pupi da una vita, non solo cinematografica. Da quel film con mio padre fummo un po’ come una famiglia”.
A proposito di famiglia, il maestro racconta anche di come ha costruito la sua, insieme a sua moglie Amelia: “Non avevo mai visto una bellezza così intensa prima, il suo fulgore! Avevamo un appuntamento un venerdì, per un gelato. Lei non mi guardava ma era bellissimo, mi bastava sapere che era lì. La bellezza è commovente quando è così assoluta. Una sera la riportai a casa: cinque chilometri di tornanti per dimostrarle che ero brutto, sì, ma ero intellettuale, romantico, sapevo fare somme e sottrazioni!” scherza, e continua: “Ero nel panico, alla disperata ricerca di qualcosa che facesse effetto ma niente! Poi, all’ultimo momento, come sempre, l’ispirazione: le dissi che era quasi mezzanotte del 16 febbraio e nessuno si era ricordato di farmi gli auguri, in tutto il giorno, nemmeno un bacio”.
Il pubblico segue il racconto col fiato sospeso. “Lei ci pensò, poi si protese e mi baciò. E io compio gli anni il 3 novembre! Otto mesi dopo, celebrammo il nostro matrimonio. Ma la sposavo solo perché era bella, non sapevamo nulla l’uno dell’altra. Ci siamo via via scoperti, anche negli aspetti negativi. Io sono diventato regista, ho approfittato biecamente delle nuove possibilità che mi si offrivano. Mi sono persino innamorato di un'attrice. I primi anni di litigi continui ci hanno messo in crisi. Dovetti andarmene di casa per otto mesi. La notte che tornai e le chiesi di riprendermi, fu molto, molto difficile”.
Avati, però, conclude sulla più positiva delle note: “Faticammo molto, ma alla fine ci riuscimmo. Per questo penso che per parlare di matrimonio bisogna viverlo per 50 anni. Dire dopo cinque anni che il matrimonio non funziona è da pazzi. Perché la parte più straordinaria è adesso. Mia moglie mi garantisce una vecchiaia con due occhi che mi guardano e mi conoscono come il mio hard disk. Questa esperienza la può raccontare solo chi l’ha vissuta. Amelia è la persona senza la quale non potrei mai immaginare di vivere”.