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Come ogni anno, la variegata parata cinematografica offerta dal complesso delle sezioni del festival di Cannes, dalla Selezione Ufficiale alla Quinzaine des Réalisateurs, fino alla Semaine de la Critique e l'ACID, compone un frastagliato mosaico dell'esistente nel cinema globale, tra consolidate conferme del cinema d'autore internazionale e potenziali scoperte e sorprese, in provenienza dai più disparati angoli del globo. Il raccolto di questo ultimo anno e mezzo, dopo la cancellazione dell'edizione 2020 (parzialmente compensata dalla politica dei label 2020) non si discosta da queste coordinate e si presta a congetture e scommesse su quali potranno essere i titoli e i registi che riusciranno a rifulgere di nuova luce e acquisire nuova o maggiore prominenza grazie al passaggio sulla Croisette. Ci prestiamo qui al gioco dell'imprevisto e della curiosità, avventurandoci nei territori del (più o meno) imprevisto.
La ricognizione non può che cominciare dal Concorso, da sempre, sotto la Direzione di Thierry Frémaux, caratterizzato da un alto grado di fedeltà a nomi ricorrenti e rassicuranti. In tal senso, le nostre scommesse non possiamo che piazzarle su un terzetto di registi alla seconda partecipazione in gara e ad un paio di emergenti alla prima apparizione nei ranghi dei contendenti per la Palma d'Oro.
Tra i primi, ritroviamo, innanzi tutto, Kirill Serebrennikov, prominente artista del teatro e del cinema russi e strenuo oppositore al regime putiniano, recentemente al centro di un caso giudiziario (accuse di frode finanziaria) identificato dalle organizzazioni per i diritti umani come chiara ritorsione contro le sue attività politiche. Serebrennikov torna in Concorso a Cannes, dopo la partecipazione con Leto (2018), grazie a Petrov's Flu, adattamento letterario dell'acclamato romanzo di culto di Alexey Salnikov, che promette un'immaginifica cavalcata nella vita di un uomo della generazione degli anni Settanta, tra lasciti del post-comunismo e del trauma del conflitto nel Caucaso.
Petrov's FluAltro atteso secondo ritorno in gara è quello del giapponese Ryûsuke Hamaguchi, reduce dal Gran Premio della Giuria alla Berlinale 2021 con Wheel of Fortune and Fantasy, e candidato alla consacrazione con Drive My Car, libero adattamento di una novella di Haruki Murakami. Si tratta di una storia di perdita e di rinascita fortemente influenzata dal teatro di Checov – e il protagonista, infatti, è un regista teatrale che lavora ad un'inconsueta messa in scena di un testo dell'autore russo.
Tassello finale di questo terzetto è l'australiano Justin Kurzel che, dopo l'adattamento scozzese di Macbeth (2015) con Michael Fassbender e Marion Cotillard, torna a Cannes con una terribile storia australiana, quella del massacro di Port Arthur del 1996 che portò ad una seria revisione delle leggi australiane sul porto d'armi. Il film si chiama Nitram, lettura al contrario del nome del perpetratore, Martin Bryant, di cui Kurzel dipinge un ritratto pre-massacro.
I debuttanti nel Concorso cannense che attendiamo con riguardo e aspettative sono, invece, l'israeliano Nadav Lapid, reduce dall'Orso d'Oro berlinese per il travolgente Synonymes (2019), che con Ahed's Knee pare proponga un'opera dolorosa e personale ispirata alla recente perdita della madre, e il finlandese Juho Kuosmanen, già vincitore di Un Certain Regard con The Happiest Day in the Life of Olli Makki (2016) che approda in Concorso con Compartment No. 6, adattamento del romanzo di Rosa Liksom che racconta di un incontro tra un uomo e una donna su un treno che attraversa il Circolo Artico. Nel cast il lanciatissimo talento russo Yuriy Borisov e l'iconica Dinara Drukarova, indimenticabile attrice bambina nei capolavori di Vitali Kanevsky.
Nadav LapidNella selva delle innumerevoli opere che cercheranno di emergere dai calderoni delle sezioni collaterali, proviamo a puntare dei riflettori virtuali in primis su un manipolo di titoli di Un Certain Regard. A cominciare dal primo lungometraggio narrativo della cineasta belga di origini rumene Teodora Ana Mihai, che si era fatta un'ottima reputazione nel circuito festivaliero grazie al documentario Waiting of August (2014). Il suo La civil, ispirato da ricerche documentarie di lunga data sulla storia di una donna messicana che sfida i cartelli della droga per ritrovare la figlia rapita, pare sia un dramma potentissimo e di grande impatto. La accompagnano dei padrini illustri, i fratelli Dardenne, Cristian Mungiu e Michel Franco, che l'hanno prodotta.
Una sorpresa assoluta sarà certamente poi Rehana Maryam Noor, secondo film di Abdullah Mohammad Saad e primissimo film dal Bangladesh in selezione ufficiale a Cannes. Dopo il lacerante dramma fassbindeirano Live from Dhaka (2016), il giovane cineasta racconta di una docente universitaria che assiste ad un episodio di abuso e decide di denunciarlo contro tutto e tutti.
L'esordio dell'islandese Valdimar Jóhansson Lamb, invece, può contare sulla presenza della bravissima Noomi Rapace, ma soprattutto su un inedito racconto che mescola fantastico ed echi da tragedia greca o saga nordica nel raccontare di una coppia che adotta uno strano ibrido tra umano e ovino.
E sempre dal grande nord, il norvegese Eskil Vogt, sceneggiatore dei film di Joachim Trier (in Concorso con The Worst Person in the World), approda sulla Croisette come regista con l'inquietante The Innocents, racconto politicamente scorretto di bambini dotati di poteri paranormali. Aria di potenziale sorpresa anche per una rara partecipazione da Haiti, con il dramma femminile Freda dell'attrice all'esordio nella regia Gessica Généus.
Sempre a proposito di esordi, chiudiamo con una ricognizione su potenziali rivelazioni dalle altre sezioni. Cominciando dal cinese Are You Lonesome Tonight? di Wen Shipei, incluso all'ultimo minuto tra le Séances spéciales, che si presenta come distillato cinefilo di suggestioni noir, tra classico e contemporaneo. E poi, alla Quinzaine, il documentario politico A Night of Knowing Nothing dell'indiana Payal Kapadia, che pare susciterà polemiche in patria, il dramma femminile dal Costa Rica Clara Sola di Nathalie Álvarez Mesen, sorta di Carrie riletto secondo i canoni del realismo magico latinoamericano, e Neptune Frost, opera concettuale post-coloniale e post-moderna girata tra Rwanda e Burundi a quattro mani dall'artista e musicista americano Saul Williams e dall'attrice e regista ruandese Anisia Uzeyman.
Clara SolaInfine, alla Semaine, risaltano due opere dai temi forti, ma all'apparenza rigorose nell'approccio stilistico: Bruno Reidal del francese Vincent Le Port, che ricostruisce la tragedia di un giovane seminarista che uccise un bambino ad inizio Novecento, e Amparo del colombiano Simón Mesa Soto, che racconta di una madre che cerca disperatamente di ritrovare il figlio, arruolato nell'esercito e spedito in zona di conflitto con i narcos.