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Lo sapevamo dall'ora di pranzo. L'Italia sarebbe stata fuori dal palmares del 68° Festival di Cannes. E' successo altre volte, tante, ma stavolta brucia di più. Non per campanilismo (sport che abbiamo sempre praticato poco), semplicemente perché visto il livello del concorso di quest'anno (medio, per usare un eufemismo), Mia madre di Nanni Moretti, Youth di Paolo Sorrentino e Il racconto dei racconti di Matteo Garrone avrebbero potuto (dovuto) ottenere qualcosa.
Michael Caine e Harvey Keitel in Youth - La giovinezzaCosì non è andata, dispiace. Ma come se non bastasse la giuria presieduta dai fratelli Joel ed Ethan Coen ha deciso di ignorare uno dei film più potenti di questa edizione, Mountains May Depart di Jia Zhangke, film-mondo che attraverso un suggestivo lavoro sull'immagine (e tre aspect-ratio diversi) ci ha saputo raccontare la Cina dal 1999 al 2025 (destinazione Australia), passando per l'oggi e per la travagliata storia d'amore di una ragazza che, in base alla sua scelta, avrebbe determinato il futuro dei suoi due spasimanti. Niente, neanche una menzione.
Mountains May DepartChe il verdetto sarebbe stato discutibile si è intuito già dal primo riconoscimento, la miglior sceneggiatura a Michel Franco per Chronic, film passato il penultimo giorno del Festival e accolto a dir poco tiepidamente da critici e addetti ai lavori. E' bastato attendere il premio per la miglior interpretazione femminile, invece, per iniziare a comprendere quanto il palmares avrebbe sorriso ai francesi, padroni di casa: ex aequo per Rooney Mara (splendida in Carol di Todd Haynes) e Emmanuelle Bercot per il mediocre Mon Roi di Maiwenn. Non bastava aver aperto il Festival con La tete haute, diretto dalla stessa Bercot...
Riesce ad entrare nel palmares anche il più che sopravvalutato The Lobster di Yorgos Lanthimos, film mosso da un'idea oggettivamente suggestiva ma dallo sviluppo a dir poco "rivedibile": Premio della Giuria.
The LobsterE' meritato, invece, il premio a Vincent Lindon per la migliore interpretazione maschile: senza di lui, probabilmente, La loi du marché di Stéphane Brizé sarebbe passato inosservato, e invece è un ben più che dignitoso film sulla "moralità" del lavoro, oggi.
Vincent Lindon in La loi du marchéAltro riconoscimento giusto, forse "riduttivo" è il premio alla regia per Hou Hsiao Hsien e il suo The Assassin: il classico film che non può, non deve mancare in un Festival del Cinema internazionale, opera d'arte che eleva la forma a discapito del ritmo, gioia per gli occhi e magnifico assist per la catalessi.
The AssassinCome non poteva mancare nel palmares (Grand Prix) lo splendido Saul Fia (Son of Saul) dell'esordiente ungherese László Nemes, capace di raccontare l'Olocausto attraverso una nuova lente cinematografica, in un'opera in cui lo stile (aspect ratio 1.37, semi-soggettiva ed enorme lavoro sul sonoro) "rilegge" il contenuto, non per modificarne la portata (o gli esiti), ma per farci capire una volta di più, e meglio, di quale e quanto orrore sia stato capace l'essere umano.
Saul FiaE' con la Palma d'Oro che il verdetto torna a farsi discutibile perché, tornando a quanto detto in precedenza, rispetto a Dheepan del francese Jacques Audiard c'erano almeno tre film superiori. E non perché "italiani", o "cinesi", semplicemente perché più belli. Con tutto che il film del regista de Il profeta (il suo capolavoro) e Un sapore di ruggine e ossa (da sempre habitué della Croisette...) è opera ben più che discreta, capace di ragionare su più livelli intorno ad un tema importante come quello dell'integrazione. Ma qui, al Festival di Cannes, ci si aspetta che la forma e il contenuto prendano il sopravvento sul "messaggio", che vengano premiate le opere più meritevoli, a prescindere dalla "bandiera".
DheepanArgomento che poi lascia anche il tempo che trova, visto che la stragrande maggioranza dei titoli presenti al Festival (in quasi tutte le sezioni) sono coproduzioni internazionali, con in testa proprio la Francia.
Ma, è evidente, una cosa è amare il cinema, un'altra è premiarlo.