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Si può tornare alla vita dopo la morte? Su questa domanda la regista polacca Małgorzata Szumowska ha girato Body, il contributo polacco al concorso del 65. Festival di Berlino. Al centro della storia densa e complicata un giudice alle prese con casi di omicidio, la figlia anoressica e una psicoterapista esoterica. Szumowskas si avvicina la tema della vita dopo la morte senza ombra di pathos, in compenso con delicata ironia. Un uomo si è impiccato a un albero. Arriva la polizia, arriva il magistrato. La corda viene tagliata, il corpo cade a terra, mentre gli investigatorisi fanno un quadro dell’accaduto l’impiccato si alza e va via in tutta tranquillità. La scena surreale e divertente messa in scena da Małgorzata Szumowska è il senso della pellicola: la sottile linea mobile tra la vita e la morte. Seguiranno altre morti, e altri risvegli, anche se solo in sogno. Szumowska prende sul serio e tratta con rispetto chi crede agli spiriti e ai morti che non muoiono, ma se ne distanzia con rispetto. Il titolo del film riflette i diversi aspetti della storia. Il corpo bulimico e anoressico di Olga e di tutte le persone che soffrono come lei; i cadaveri mutilati che il magistrato delle indagini preliminari si ritrova a esaminare; i corpi di coloro che si trovano in lotta tra la vita e la morte.
Małgorzata Szumowska è già stata alla Berlinale, due anni fa, con il bel dramma Wimię... (In Nome di…), su un prete omosessuale. Il linguaggio del cinema della regista polacca è un linguaggio di immagini, scarno, senza emozioni, sul tema della religione. Se nel precedente W imię non mancavano le nuances di critica sociale, in Body la religione è al centro: in forma di una domanda (posta con serietà) sulla trascendenza, sul rapporto tra vita e morte. Non ci sono chance che Body vinca l’Orso, ma è un piccolo film che brilla per intelligenza. E alza la qualità del concorso.