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Il fine settimana cinematografico della settantaduesima Berlinale si è aperto con un ricco programma di quattro film in Concorso questo sabato. Una concentrazione eccezionale dovuta alla compressione del programma in cinque giorni, che costringe gli addetti ai lavori ad un tour de force acuito dalla necessità di test rapidi quotidiani per tutta la stampa, onde accedere alle proiezioni dedicate.
Il composito quartetto in gara per l'Orso d'oro ha per chi scrive visto spiccare il nuovo lungometraggio dell'indonesiana Kamila Andini, Nana (titolo internazionale, Before, Now & Then). Dopo aver dipinto ritratto una giovane che cerca di ribellarsi alle costrizioni del patriarcato nell'Indonesia contemporanea nel toccante Yuni, premiato a Toronto 2021, Kamila Andini si concentra su un personaggio femminile diametralmente opposto.
La protagonista eponima Nana (interpretata con grande delicatezza e persino sensualità da Happy Salma) è una donna di mezza età, madre di famiglia, confortevolmente sposata ad un magnate locale in un matrimonio solido e tranquillo. Dal prologo, però, sappiamo che viene da un passato tormentato, che ha a che vedere con la Storia dell'Indonesia, ossia i conflitti interni seguiti alla guerra d'indipendenza contro gli olandesi.
E il suo primo marito, infatti, è scomparso in circostanze mai pienamente chiarite. Siamo negli anni Sessanta e il colpo di stato che porta alla deposizione del Presidente Sukarno e all'insediamento della dittatura del Generale Suharto, è sullo sfondo, mentre Nana si rende conto che il marito forse la tradisce con la macellaia del mercato. Quest'ultima, anziché una rivale, potrebbe rivelarsi una preziosa alleata in un risveglio dal torpore di una femminilità passiva e soggiogata. Formalmente curatissimo e montato, soprattutto nella prima parte, in maniera elusiva e trasognata, punteggiato da maliosi passaggi surreali e da splendide performance musicali e di danza tradizionale (come d'obbligo nella magione di un potente locale), Nana finisce per strizzare un po' troppo l'occhio al Wong Kar Wai di In the Mood for Love nel suo capitolo conclusivo, ma rimane un film di gran pregio che conferma i progressi di una cineasta promettente.
Andreas Dresen è invece un consolidato veterano del cinema tedesco, capace in passato di raccontare con arguzia e partecipazione il lato Est post-muro della Germania contemporanea. In Rabiye Kurnaz gegen George W. Bush (Rabiye Kurnaz contro George W. Bush) s'interessa del caso della madre di un turco-tedesco internato a Guantanamo nel post 11 settembre che, con l'ausilio di un pervicace avvocato votato alla causa dei diritti civili, ha lottato per anni per vedere riconosciuta l'innoncenza del figlio e permetterne il rimpatrio. Rabiye Kurnaz gegen George W. Bush è un oggetto assai curioso, perché da questo spunto che si presta al dramma (si pensi al recente The Mauritanian, che era alla Berlinale l'anno scorso), Dresen imbastisce invece una commedia, incentrata sull'irresistibile prova ugualmente comica e tenera di Meltem Kaptan nel ruolo di Rabiye Kurnaz. Al contempo, l'elemento comico-popolare è forse il più problematico del film, giacché tutto incentrato sui cliché relativi al ritratto della madre turca e del suo modo diciamo ingenuo di muoversi in un contesto più grande di lei (il classico elefante in un negozio di cristalleria).
C'è però molta tenerezza verso il personaggio, ma in tempi di politicamente corretto, qualche critica il film se la potrà attirare. Quel che è più interessante, a conti fatti, è il versante politico più specificamente tedesco del film, giacché Dresen non risparmia critiche a come la polizia, il sistema giudiziario e la politica tedesche hanno gestito la vicenda. In tal senso, Dresen allinea il film ad una posizione smaccatamente pro-Merkel, denunciando i torti del precedente governo rosso-verde.
Autori di prestigio come Claire Denis e Rithy Panh hanno invece portato a Berlino prove francamente deludenti. Con Avec amour et acharnement, Claire Denis si concentra su un triangolo amoroso che ha ai vertici la coppia formata da Jean (Vincent Lindon) e Sara (Juliette Binoche) e l'ex di lei (Grégoire Collin), in una dinamica del desiderio e della gelosia che non ha nulla di particolarmente originale e ispirato, né in termini di racconto né in termini di resa formale. Anzi, la povertà di scrittura porta gli interpreti a deragliare in interpretazioni che mancano di respiro e sottigliezza.
Una prova da dimenticare per Claire Denis. E perplessità le suscita pure Everything Will Be OK, dove Rithy Pahn torna ai modellini che avevano caratterizzato il potente L'immagine mancante (2013) per raccontare una storia futuristico-distopica dove gli animali prendono il potere, ma come in una replica de La fattoria degli animali, le logiche del potere e della crudeltà portano ad una nuova catastrofe. Dopo aver preservato dall'oblio la Storia della Cambogia nelle sue opere sul trauma del regime di Pol Pot e dei Khmer rossi, già con il precedente Les irradiés, presentato alla Berlinale 2020, Rithy Pahn pare aver intrapreso la strada di un cinema 'profetico', volto a condannare i mali dell'umanità, vuoi in maniera diretta, come nel precedente, vuoi in maniera metaforica, come in Everything Will Be OK.
Una svolta frustrante, predicatoria e retorica che ci auguriamo sia solo temporanea.
Chiudiamo con un'ulteriore delusione, meno cocente, ma sempre in quota francese con il nuovo lavoro di Alain Guiraudie Viens je t'emmène, presentato in apertura di Panorama. Il film inizia letteralmente con il botto, con un attentato terroristico a Clermont-Ferrand, ma si instrada poi su un percorso di commedia stralunata attorno a dinamiche relazionali e del desiderio tipiche di Guiraudie. Purtroppo, a metà via il meccanismo s'inceppa, tra ripetizioni e, soprendentemente, una mancata spinta sul pedale della trasgressione. E anche per Guiraudie c'è da sperare che ritrovi presto la sua vena più felice.