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Pesaro Film Festival, vista la natura sperimentale ed esplorativa della Mostra, non poteva esimersi dall’interrogare e interrogarsi, tra spettatori e (giovanissimi) registi della sezione “Satellite”, sulla natura del cinema. “A cosa serve il cinema?”, questa la domanda lanciata in apertura di incontro dal Direttore Pedro Armocida, che non nasconde una certa avversione verso la sua sfumatura utilitaristica.
“Al di là di questioni terminologiche” spiega Gianmarco Torri, organizzatore e selezionatore dei titoli concorrenti in Satellite, oltre che del tema dell’incontro, “il nocciolo della questione è: perché lo facciamo? Vorrei che fosse una domanda che il festival si ponesse ogni anno, per non rinunciare mai alle nuove proposte, non perdere di vista la contemporaneità e non lavorare per inerzia o solo perché è il nostro dovere”.
Apre il dibattito Emanuele Marini, regista di Solo gli occhi piangono: “A cosa serve il cinema? Mi verrebbe da rispondere: a vederlo. Ed è bellissimo che si parli di questa necessità, dentro e fuori dai festival”. Prosegue, inoltre: “Cinema è testimoniare il nostro essere in vita, dal nostro punto di vista, guardare le fratture in noi stessi e nel mondo. È un atto di messa a nudo, per noi e per chi lo guarda”.
Interviene a questo punto Erik Negro, autore di Non c’è nessuna dark side. “A cosa serve il cinema… È una domanda o un punto esclamativo? Cerchiamo di dare un ordine all’universo di immagini che abbiamo attorno, un ordine magari provvisorio e ambiguo, ma sempre meno di quello al di fuori”.
“Non c’è nulla di utilitaristico” afferma poi Morgan Menegazzo, co-regista di Prima che l’ora cambi con Mariachiara Pernisa, “Ci si può interrogare sullo scopo collettivo, comunitario del cinema. Le immagini sono sempre state politiche, e di questi tempi sono sempre più veicolate come merce, come prodotto”. Parla poi la sua collaboratrice, Mariachiara: “Meno il cinema è narrativo e più lo spettatore ha un ruolo attivo nel plasmare ciò che vede. Basta pensare alle scene di caccia sulle pareti delle caverne: l’immagine ha sempre avuto il potere di far accadere le cose, e in movimento lascia ancora più aperta la porta verso il mondo del possibile”.
Edoardo Genzolini, che ha diretto Eraserhead – Rimozione Sicura, dichiara invece che il cinema è “affrontare il senso di limite, di impermanenza. È desiderio di controllo su ciò che per natura non può essere controllato, rendere riproducibile qualcosa che altrimenti non potrebbe resistere. Preservare dall’oblio ciò che è destinato a sfumare nel tempo”.
Una prospettiva diversa, quella di Giorgio Maria Cornelio, rappresentante de La Camera Ardente e responsabile delle immagini di Onda, nel cosmo dell’occhio, progetto di visualizzazione musicale facente parte del dopo-festival, il Muro del Suono. “Oggi il cinema serve a far vedere meno, non di più. Perché ormai vediamo troppo”.
Replica Donato Sica, regista di Fantasmata, sul cinema d’intrattenimento e di massa: “Sono cresciuto negli anni ’80 davanti alla TV e passavo più tempo con Bertolucci e Lupin III che con i miei genitori. Ho imparato senza saperlo cosa fosse la politica, la socialità, la sessualità”.
Ma sulla stessa cultura di massa discorda Giuseppe Spina, di Variazioni luminose nei cieli della città: “Io sono cresciuto nel deserto siciliano. Il mio primo lavoro serio non è stato accettato dai festival italiani cui l’avevo mandato, mentre sono stato invitato, e ospitato, a Rotterdam. Allora mi sono reso conto che il deserto, più che siciliano, era quello italiano. Da quel momento ho deciso che avrei cercato di sostenere, oltre che fare, il cinema sperimentale italiano, per chi come noi lavora nel deserto”.
Chiude l’incontro Matteo Arcamone, regista di In mezzo a qui (a.k.a. Girando Chuva Obliqua) con Francesco Matteo Ceccarelli, come il direttore Pedro Armocida, respinge la domanda iniziale, prediligendo piuttosto riflettere sull’oggetto del cinema: “I film sono come le persone: ogni incontro ti dà coordinate in più, analitiche o spirituali. Chiedersi perché si fanno i film è come chiedersi perché si fanno i bambini: capitano!”.