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“Benché elementi personali e privati siano entrati nella storia del nostro nuovo personaggio” continua Michele Manzolini, co-regista de Il Varco, presentato a Venezia76 in Sezione Sconfini, “la nostra guida era solo la suggestione del materiale visivo”.
Replica allora Federico Ferrone, l’altro regista: “Staccare dalla forma puramente documentaria, ci ha dato una libertà, in scrittura, che ci ha aiutato a creare un unico e nuovo punto di vista”.
E i riferimenti al contemporaneo? “Sono la scommessa del film. Gli stessi luoghi, con gli stessi nomi, dove si compirono massacri allora, oggi sono di nuovo teatro della guerra”. E si domanda: “Magari non è casuale che proprio lì, dove si è combattuto tanto aspramente, si combatta ancora e di nuovo”.
Interviene a questo punto Wu Ming 2, elemento del celebre collettivo anonimo di scrittori autori di Q e Altai: “La parte più intima del film pone questioni narrative. Non abbiamo fatto un uso selvaggio del materiale d’archivio, c’è stato sempre un lavoro di equilibrio e rispetto del materiale, pubblico e privato, ed è stato più difficile e diverso dal fare un documentario”.
E continua, sulla rappresentazione della campagna di Russia e degli Italiani in guerra: “È un’arma a doppio taglio rappresentare la quotidianità dei totalitarismi di allora, perché se da una parte è vero, lontano dal fronte, lo scopo del film è l’opposto del normalizzare”.
Chiude le testimonianze Claudio Giapponesi, di Kiné Società Cooperativa, che ha collaborato in produzione con Istituto Luce: “Per la sua stessa natura ibrida, Il Varco è complicato anche da distribuire. Non adatto in un festival documentario, forse nemmeno in un festival di fiction. Per questo siamo onorati di essere qui, a Venezia: è la prova che si può fare cinema di questo genere, tra l’altro limitato al solo ‘900, visto che è l’unico secolo ad usare la pellicola”.