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“Siete pagati per farlo, lo so!”. Così Valerio Mastandrea commentando la standing ovation che gli ha riservato il pubblico del Teatro Petruzzelli, ‘tutto esaurito’ in ogni settore già subito dopo l’apertura delle porte di prima mattina, nell’ultima Masterclass del Bif&st 2019, coordinata da Marco Spagnoli.
Una Masterclass, quella dell’attore (ora anche regista) destinatario stasera del Federico Fellini Platinum Award, che si è quasi subito trasformata in un vero happening tra battute scherzose, momenti di grande ilarità e una continua interazione con il pubblico.
L’incontro è stato preceduto dalla proiezione di “Non pensarci” (2008) di Gianni Zanasi, scelto dallo stesso Mastandrea: “Mi chiedono spesso a quale film sono più legato ed è una domanda cui è difficile rispondere. Da un po’ di tempo, tuttavia, ho iniziato a dire che è ‘Non pensarci’ e penso che sia vero perché con Gianni Zanasi condividiamo la visione di quello che facciamo, siamo entrambi un po’ ridicoli, amiamo i personaggi buffi che schivano i colpi della vita. Quello di Stefano Nardini è un personaggio che abbiamo entrambi dentro. È tanto tempo che non vedo il film ma ogni volta mi riporta a tanti bei ricordi della mia vita”.
Quando ha deciso di fare l’attore? “Non è stata una decisione lucida, è accaduto tutto per caso, ancora dopo tre o quattro film mi ritenevo solo uno studente universitario. D’altronde a 21 anni studiavo e mi piaceva molto anche se non sapevo cosa avrei fatto dopo. Poi ho iniziato a fare alcune apparizioni in televisione e da lì è partito tutto. Ho cominciato a metà degli anni ’90 quando non c’era la serialità di oggi, si poteva fare ancora un certo tipo di cinema anche se c’era anche tanto cinema d’autore molto autoreferenziale. Poi le cose sono cambiate, è cambiata la percezione stessa del cinema. Sono cambiate anche le strutture e il sistema però non sono mai mancati i bravi registi, sceneggiatori, attrici e ed attori”.
“Tornando ai miei inizi” – ha proseguito – “ammetto che ho fatto poca gavetta e avrei dovuto farne di più. Ho bruciato le tappe perché ero l’attore che mancava, quello che era sé stesso, che poteva essere percepito come autentico. Il mercato in quel momento chiedeva quello e io sono riuscito ad accontentarlo, anche successivamente e anche rispetto a certe tematiche. Ad esempio ora, quasi cinquantenne e con tutti i miei acciacchi, sento il tema della malattia che mi sta girando attorno!”.
La prima volta che si è sentito soddisfatto del suo lavoro? “Potrei dire mai, cerco sempre di fuggire dalle situazioni definitive, io tendo a colpire e poi allontanarmi. Se un giorno mi capiterà di emozionarmi in modo totale, allora quella sarà la fine”.
Su gli altri registi e attori con i quali ha lavorato, Mastandrea ne ha citati due che sono scomparsi: “Mi manca Claudio Caligari e mi manca Ettore Scola, mi manca la sua giovinezza e la sua freschezza che nessuno di noi avrà mai. Tra i registi che mi hanno più sorpreso c’è invece Valeria Golino, con cui ho fatto ‘Euforia’. Mi hanno colpito la sua voglia di cinema e anche il film; mi ha colpito il lavoro di Riccardo Scamarcio, reso possibile anche dalla regista”.
Mastandrea ha debuttato come regista, lo scorso anno con “Ride”, che esperienza è stata? “Sono stato poco ‘coatto’ con la macchina da presa, avrei potuto curare qualcosa di più, soprattutto sul piano tecnico ma mi interessava di più dire certe cose piuttosto che come dirle”.
Qualche rimpianto su film che non ha fatto? “No, però ricordo che feci il provino per ‘Il branco’, non fui preso e ci rimasi molto male perché ammiravo Marco Risi e avrei voluto lavorare con lui. ‘C’è qualcosa nel suo sguardo che non mi convince’, si giustificò. Non ho mai capito cosa volesse dire”.
Sui rapporti con il pubblico: “Il primo che mi ha avvicinato era uno della Lazio e mi voleva menare perché io sono romanista. Poi so che c’è chi non mi sopporta perché si identifica con me, con la mia normalità e si chiede: ‘perché lui ha successo e io no?’. Una volta, invece, mi capitò, sempre all’inizio della mia carriera, di guidare il motorino di notte, in una strada deserta, quando vengo superato da un altro motorino con un tizio che mi riconosce, rallenta e poi mi dice ‘Ma tu sei l’attore! Bravo, mi piace come lavori! C’ho un po’ d’erba, ti va di farti una canna con me?’. ‘No grazie, io non fumo’, rispondo. E lui: ‘Bravo, grazie, così me la fumo tutta io!’ Quel ‘grazie’ mi colpì molto”.
Alla spettatrice che gli ha chiesto un consiglio per intraprendere la carriera di attrice ha risposto: “Non andare all’estero, resta qui”. Inevitabile accennare alla Scuola di Cinema da lui fondata a Roma e intitolata a Gian Maria Volonté. “Tutto è nato da una chiacchierata, una sera, con Daniele Vicari durante la quale vagheggiavamo di una scuola di cinema che fosse gratuita, perché pensavamo dovesse essere un servizio pubblico. Ne è nata una scuola dove si studia il cinema come fosse un mestiere normale ed ha uno stretto legame con il mondo del lavoro, è diventata in pochi anni una scuola di alta formazione. Oggi c’è chi la gestisce molto bene e io ci vado saltuariamente, il tempo di demotivare i ragazzi e poi me ne vado!”.