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Federico Fellini (Webphoto)
Pubblichiamo frammenti dell’articolo che Gian Luigi Rondi scrisse sulla Rivista del Cinematografo (anno 63, numero 12, dicembre 1993) in occasione della scomparsa di Federico Fellini: il 20 gennaio 2020 il maestro avrebbe compiuto 100 anni.
Una lunga favola di gioia e di nostalgia
[…] Se mi guardo indietro, nella mia lunga carriera di critico, e mi immagino un cinema senza film di Fellini, mi sembra di trovare un vuoto, riempito solo, ma senza gli stessi fuochi, dei film di Bergman e di Kurosawa, gli unici che siano riusciti a somigliargli.
Il cinema senza La dolce vita? Il cinema senza Amarcord o il Casanova o Otto e mezzo o la terribile e temibile Prova d’orchestra? Aveva inventato tutto, aveva scoperto i segreti dell’immagine, era stato il primo mago della visionarietà allo stato puro, celebrandola come una ricerca che, servendosi della pittura – più d’una volta della sua stessa pittura – gli nasceva da un inconscio cui riusciva a dare vesti smaglianti, doviziose, persino barocche, anche quando, inseguendo certi climi algidi, trasformava poi i sogni in incubi mentre i toni, che pure rifuggivano ostinatamente ogni retorica, tendevano insensibilmente al profetico: non solo ne La dolce vita, ma persino nel Bidone che non tutti furono in grado di apprezzare, e da ultimo in Intervista che, pur sembrando la radiografia di un regista sul set la sua autobiografia era un grido d’allarme severissimo nei confronti di tutto il mondo di oggi.
Profezia, visionarietà, autobiografia. Agli inizi soprattutto quest’ultima, ancora con quegli accenti realistici che, prima che spiccasse il volo nei cieli della fantasia, gli derivano dai suoi esordi a fianco di Rossellini, sia quando aveva sceneggiato con lui Roma città aperta e Paisà, sia quando, un po’ più tardi, aveva recitato da attore in uno dei due episodi di Amore, Il miracolo.
I suoi ricordi, perciò: l’adolescenza in Romagna, Rimini, il Grand Hotel, le notti passate a bighellonare nelle strade deserte di provincia. Con un umorismo cui si aggiungeva subito, però, un piglio risentito che giudicava e graffiava, come nei Vitelloni – il film più esemplare in questo senso – che già vent’anni prima anticipava la grande elegia di Amarcord, un’età, un’emozione, un incanto, una magia, in cui il ricordare stesso si sublimava in equilibrio perfetto tra l’ironia e il dramma, tenendosi ad ogni istante, pur nell’invenzione, al reale.
Ma quel mondo che nasceva dall’interno, votato con ardore alla memoria, sapeva anche riflettersi nelle cose e nella gente attorno, mosso da spunti poetici segreti, da occasioni tutte e unicamente interiori: nella Strada, ad esempio, dove l’occasione, forse, era Giulietta Masina, la sua musa gentile, ma dove gli spunti interiori erano certe meditazioni che aveva inteso fare sulla priorità dello spirito e sui rischi delle concessioni alla materia. […]
Per arrivare presto – dopo la pausa realistica delle Notti di Cabiria, anche qui con l’occasione di Giulietta Masina ma con le stesse possibilità di reinvenzioni folgoranti che si ritroveranno più tardi anche in Giulietta degli spiriti – a quella Dolce vita che forse è «il film del secolo»: incubo, profezia, minaccia, ritratto di un’epoca ma anche lucida anticipazione del futuro: non solo quanto a temi ma quanto a modi, visto che è da lì che è nata dopo tutta la Nouvelle Vague, con i suoi discorsi frammentari con le sue rivoluzioni linguistiche all’interno di strutture del cinema che già quel film aveva cominciato a rivoluzionare: senza che i contemporanei se ne avvedessero fino in fondo.
La dolce vita! Poi gli incendi. Sia che l’argomento fosse l’antica Roma, il Satyricon, sia che, in Roma, fosse la Roma dei Settanta riletta dal provinciale di genio che vi era approdato adolescente e la cantava adesso ora beffando e irridendo ora commiserando e soffrendo, sia che, nel Casanova, fosse un’Europa del Settecento più bella nell’invenzione che non nelle pagine di storia arrivate sino a noi.
Gli incendi! Nelle immagini, soprattutto, nella capacità di far pittura con scenografie e costumi, di far teatro con azioni sempre volutamente al di fuori della realtà – ma egualmente concrete – facendo contemporaneamente levitare su tutto un’aura fra il misterioso e il sognato che, stilisticamente, si era finito presto per definire “felliniana”, tanto quel tocco era solo il suo, tanto quel modo di far cinema nel reale ma al di sopra del reale dandogli l’immaginazione come punto d’appoggio, portava la sua impronta più tipica, il suo segno, la sua firma. […]
Ricordo, dopo Ginger e Fred, l’emozione che mi provocò Intervista. Mi ero chiesto – e gli avevo chiesto – se con il cinema che guarda in se stesso si potesse andare oltre, se lui, nella sua carriera avrebbe potuto raggiungere altri approdi. Ha raggiunto quello della Voce della luna che, su Il Tempo, aveva tenuto a definirmi «un film sull’oggi e sulla sua incapacità totale di aderire ad una norma perché la norma non c’è più, c’è, semmai, la norma della non norma». Ancora una volta, dunque, attento al “sociale” anche se tutta quella sua magica carriera, a ripensarla oggi a ritroso, assume quasi l’aspetto di una grande favola, sfavillante, luminosa, sempre pronta a suscitare nel cinema – e con il cinema – occasioni di stupore, di meraviglia, di gioia.
Quelle occasioni, che, dopo averne regalate tante cominciavano, in questi ultimi anni, a mancare proprio a lui, soprattutto sul versante della gioia. L’inattività, dopo La voce della luna, aveva finito per pesargli in modo quasi doloroso. L’Oscar alla carriera l’aveva rallegrato solo in minima parte: «Premiarmi per la carriera – mi disse – ti fa sempre l’effetto che si tirino le somme. Una sensazione che avevo già provato quando, a Venezia, mi avevi dato il Leone d’Oro; allora, però, lavoravo ancora, adesso sono fermo e, anche se con un Oscar tra le braccia, è sgradevole sentirsi un pensionato, magari anche di lusso. Te lo giuro: preferirei un film subito a venti Oscar come questo…».
Era il Poeta del movimento, con una fantasia instancabile sempre pronta a rinnovarsi. È l’inattività, forse, che ha spento quei suoi incendi.