PHOTO
Si è chiusa sabato 23 febbraio la prima edizione di Fare Critica, il festival dedicato alla critica teatrale e cinematografica, diretto da Gianlorenzo Franzì.
A proseguire il dibattitto sul ruolo culturale della critica cinematografica nell’epoca di oggi, sono state due generazioni di critici a confronto: il giovane Gian Luca Pisacane (La Rivista del Cinematografo, Famiglia Cristiana, Il Giorno) e un veterano come Anton Giulio Mancino (saggista, docente di Cinema all’Università di Macerata e critico cinematografico per diverse testate, tra cui Bianco e Nero, Film TV, Quaderni del CSCI e Cinecritica).
Pisacane, con il suo intervento “I dolori del giovane critico”, ha cercato di mettere in luce le enormi difficoltà che un giovane professionista si trova ad affrontare oggi per svolgere questo lavoro. “La professione del critico per un giovane è come scalare una montagna”, ha esordito Pisacane, facendo riferimento al fatto che ormai gli studi di provenienza (umanistici o giornalistici) non sono più così determinanti come in passato. Ma non si deve perdere la speranza, soprattutto “non si devono accantonare i propri sogni”. C’è ancora il margine necessario ad invertire la rotta. Ma “per consolidare un cambiamento, è necessaria una collaborazione tra chi è davvero maestro della critica e chi si affaccia a questo mestiere”. Bisogna unire le forze, insomma. Non solo tra critici e artisti, come giustamente esortato da Cristiana Paternò nei giorni precedenti, ma anche tra critici stessi.
“D’altronde – ha continuato Pisacane – proprio recentemente un gigante del cinema come Steven Spielberg, con il suo The Post (2018), ci ha ricordato la forza dei giornali oggi, la forza del giornalismo vero. Ma è necessario riflettere anche sul potere del web, una problematica che già Sidney Lumet nel 1976 ci aveva anticipato con il suo Quinto Potere. Internet, ormai, ha invaso ogni settore. Non si tratta più solo di web journalism e social media, ma anche di piattaforme streaming come Netflix”. Il critico, poi, ha cercato di spiegare come Internet, e più in generale la tecnologia, abbiano cambiato radicalmente il mondo dell’audiovisivo. “Si pensi a come si possa fare un film semplicemente con un telefono, in tal senso basta fare un nome su tutti: Steven Soderbergh. Molti ragazzi, poi, diventano registi di successo planetario girando corti e mettendoli sul web”. Ma il tutto ha anche dei risvolti culturali estremamente positivi perché questo implica anche una possibilità maggiore di accostarsi alla Settima Arte. Le statistiche, infatti, ci dicono che i Millenials amano molto il cinema.
Ma se il cinema è vivo, allora anche la critica deve esserlo perché è essa stessa “analisi e comprensione dell’evoluzione dei tempi”. L’abbondanza di recensioni che spopola sul web, e l’uso spesso improprio che viene fatto della critica cinematografica, però, devono spingerci a ridefinire il concetto stesso di critica: “è un viaggio antropologico, che vuol dar vita a immagini più nitide per mettere a fuoco una visione del mondo”.
Ci sono però “delle metodologie da rispettare, per fare in modo che la critica cinematografica sia in grado di produrre ancora qualcosa di buono nell’era di internet”, ha esordito Anton Giulio Mancino. Con il suo intervento “L’auto-critica cinematografica”, infatti, ha cercato di esortare ad un impiego della professione che non sia viziata da gusti estetici ed ideologie personali.
Lui stesso, infatti, ha ricordato come molti giudizi negativi che aveva espresso in passato nei confronti di alcuni film, a distanza di molti anni gli sono sembrati “invecchiati”. Delle volte, accade di “accanirsi contro un film”. Un errore che è possibile evitare “limitandosi ad argomentare quando si scrive di cinema, senza esprimere delle emozioni, che non sono nemmeno così interessanti”. Il compito del critico è quello di “rivelare in qualche modo all’autore delle ‘piste’ nuove sulla sua opera e, su questa base, lo spettatore valuterà poi a sua volta ed autonomamente”. Per assolvere alla funzione di mediazione di un’opera, un film “deve essere compreso per quello che è e non per ciò che il critico vorrebbe che fosse”. La critica cinematografica, quindi, “è prima di tutto responsabilità”.