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Disco Boy
Dei film non riusciti si dice abbiano una bella fotografia, e quelli con una bella musica che film sono? Nel novero è Disco Boy di Giacomo Abbruzzese, co-prodotto dall’italiana Dugong Film, unico titolo (anche) tricolore in concorso al 73° di Berlino.
Nato a Taranto, diplomato a Le Fresnoy in Francia, nominato ai César per il documentario America, Abbruzzese vive tra Parigi e Madrid e ha voluto che la sua opera prima fosse internazionale, dall’architettura produttiva (Francia/Italia/Belgio/Polonia) al cast e alle location. Sicché Aleksei (il tedesco Franz Rogowski, visto in Freaks Out) bielorusso orfano in fuga dal passato, che viaggia clandestinamente per l’Europa fino a Parigi: si arruola nella Legione Straniera, allo scopo di ottenere il passaporto francese. Migliaia di chilometri più a sud, nel delta del Niger, il giovane rivoluzionario Jomo (l'esordiente Morr Ndiaye) combatte contro le compagnie petrolifere che hanno devastato la sua terra, mentre la sorella Udoka ((Laëtitia Ky) imbraccia la desistenza e sogna di fuggire, rien ne va plus. Giovani, carini e transfrontalieri, sono tre destini che si uniscono, sull’orlo del baratro e oltre.
Allora, per avvicinarci al verdetto, Disco Boy ha anche una bella fotografia, firmata dalla rohrwacheriana e molto altro Hélène Louvart, e si prova intenzionalmente d’autore o, meglio, si vuole di genere d’autore: Abbruzzese ha la sostanza per farlo, e un po’ anche il gusto, malgrado probabilmente – il soggetto reiteratamente al centro dell’immagine – digiuno della regola dei terzi. Comunque, le musiche elettroniche composte dal francese Vitalic sono suggestive, fanno il loro che, al cospetto di una drammaturgia carente, diventa pure troppo. Il problema è della sceneggiatura, allorché Aleksei e Jomo si scontrano in termovisione – perché?
Chi è il soggetto vedente? Boh, il film perde in temperatura umana e temperie sociopolitica, facendo dello strabismo a colori – vedrete – la spia di una mancata convergenza poetico-stilistica. Senza rovinarvi – si fa per dire – la sorpresa, Disco Boy non conferma le interessanti premesse e non trasforma le promesse più culturali, risolvendosi in una mancata triangolazione e nel canto - coatto più che - libero di Aleksei, ovvero mancando il gioco di specchi, identità, cattività e destino, tra un europeo straniero in patria e i due africani.
Chi trova un amico trova un tesoro, ancor più se ci condivide la sceneggiatura: Abbruzzese non l’ha fatto, purtroppo per sé e per noi. Rimane pregevole il respiro internazionale, la tensione travalicatrice rispetto al due camere e tinello di ancora tanto nostro cinema, ma sarebbe servita più tenuta, più risolutezza, più cazzimma nel trasfigurare anziché affrescare – le sequenze in discoteca sono da Sorrentino minore, se non minorato.
È anche un tema di co-produzione, dunque di controllo e compromesso, che non è solo un fatto economico ma eidetico: bene il disvelamento aereo del delta del Niger spoliato e stuprato, meno bene la trasmigrazione dell’iride.
Sarebbe servita più serietà o, forse, semplicemente più radicalità: Disco Boy balla da solo.