E' uno dei maggiori esponenti della scena underground newyorkese, ma i suoi film raramente arrivano in sala o vengono trasmessi in tv. Il grande pubblico ignora chi è Lech Kowalski e anche tra gli appassionati e i cinefili la sua figura resta prevalentemente legata a due soli titoli D.O.A, analisi del movimento punk all'inizio degli anni '70 attraverso la storia del primo tour americano (nel 1978) dei Sex Pistols, e il bellissimo East of Paradise, vincitore nella sezione Orizzonti alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia. Tanto di cappello allora all'Alba International Film Festival che per la prima volta organizza in Italia un'ampia retrospettiva dedicata all'opera al regista di origini polacche. Undici i titoli in cartellone: oltre ai suoi film più noti, anche Gringo, in cui racconta la vita del tossicodipendente John Spacely, Born to Lose sul chitarrista e cantante Johnny Thunders e On Hitler's Highway, sull'umanità che popola la prima autostrada costruita dal dittatore nazista. Il cinema di Kowalski è indissolubilmente legato alla sua biografia, ai luoghi che ha frequentato: l'industria del porno (nella quale è iniziata la sua carriera), i locali punk, i ghetti neri della Grande Mela, la scena musicale underground degli anni '70, e alle persone che ha incontrato. I suoi protagonisti sono dei diseredati, gente che vive ai margini della società, tossicodipendenti, prostitute, barboni. "Sono arrivato a New York all'inizio degli anni '90 - ci racconta Kowalski, che ad Alba sta girando anche il suo nuovo film, Doubly Mad -. Da immigrato ho cercato fin da subito di trovare un mio posto in America, ma a causa del mio background non mi sono mai veramente sentito integrato. Sulla mia vita ha pesato molto il passato dei miei genitori, entrambi deportati in gioventù nei gulag siberiani. Poi ho iniziato a scoprire il Lower East Side e lì ho incontrato persone che come me vivevano ai margini del sistema. Piano piano sono rimasto sempre più coinvolto in questo stile di vita nichilista, a interessarmi delle diverse realtà con cui entravo in contatto e a sentirmi parte di tante piccole famiglie. Quello che mi accomunava a loro - racconta ancora il regista, inseparabile dalla sua piccola videocamera - era di sentirmi un outsider. C'era grande solidarietà tra noi e questo è importante perché ti fa sentire di non essere più un diverso". Per Kowalski "l'osservazione di questa realtà attraverso la macchina da presa è un modo per trovare il mio posto nel mondo, mi riconosco nei miei personaggi e tutto diventa più chiaro. E in un certo senso anche loro trovano il loro posto nel mondo per mezzo dei miei film". All'inizio "dubitavo di riuscire a trovare i soldi per realizzare i miei film - continua il regista -, a finanziami sono stati gli spacciatori". Le difficoltà maggiori sono dovute al fatto di realizzare film totalmente indipendenti. "Ho anche lavorato a Hollywood, ma mi annoiavo. Sei costretto a lavorare sull'idea di qualcun altro e non hai mai totale libertà. Si paga sempre un prezzo per la scelta di vivere fuori dal sistema, il mio è quello di non vedere i miei film distribuiti nei cinema o trasmessi sul piccolo schermo. L'unico modo per farli vedere agli spettatori è quello di partecipare ai festival". Proprio per questo Kowalski ha deciso di rendere omaggio all'Infinity ambientando Doubly Mad durante i giorni della manifestazione: "E' un modo per far entrare in relazione i miei personaggi e il mio lavoro con il festival prima ancora che il film stesso sia terminato: mostrarlo non finito, ma mentre si fa".