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“Una delle conseguenze più piacevoli del successo è quella di avere maggiori possibilità di proporre storie in cui credi fortemente: fare una sorta di film-parente di Perfetti sconosciuti non avrebbe avuto senso, anche se è indubbio che esiste un filo rosso, quello di indagare che cosa si nasconde nel profondo degli esseri umani”.
Paolo Genovese presenta alla Festa del Cinema di Roma il suo nuovo lavoro, The Place, che questa sera chiude la XII edizione della kermesse e dal 9 novembre sarà nelle sale (in circa 500 copie) distribuito da Medusa.
Tratto dalla serie USA The Booth at the End, il film – tutto ambientato all’interno di un ristorante, "The Place" appunto - è incentrato su un misterioso uomo (Valerio Mastandrea) seduto sempre allo stesso tavolo, pronto a esaudire i desideri di chiunque gli si presenti davanti, in cambio di compiti da svolgere.
“Cosa saresti disposto a fare per ottenere ciò che vuoi?” È questa la domanda-manifesto del film, interpretato da Marco Giallini, Rocco Papaleo, Vinicio Marchioni, Silvia D’Amico, Silvio Muccino, Alessandro Borghi, Alba Rohrwacher, Giulia Lazzarini, Vittoria Puccini e Sabrina Ferilli.
“Ognuno di loro ha girato uno o due giorni, tranne Mastandrea che per tredici giorni è sempre rimasto fermo lì a quel tavolo. Se quest'anno vince il David di Donatello sarà per la categoria miglior scenografia”, dice scherzando Genovese.
Che tornando alla natura del film, spiega: “Mi sono imbattuto per caso nella serie americana e mi ha folgorato. Ovviamente in sede di sceneggiatura abbiamo dovuto modificare alcune cose per trovare una struttura drammaturgica cinematografica, non solo in termini di durata, ma anche per quello che riguardava il dover mettere un punto a tutte le storie, che a differenza del format originario qui si intrecciano, e al film stesso. Film che pone quella domanda (‘Che cosa sei disposto a fare per ottenere quello che vuoi?’, ndr) a dieci personaggi differenti, in modo che lo spettatore possa confrontarsi con diverse situazioni e trovarsi in quella condizione. Se vogliamo, è un film che prova a spostare le asticelle dell’etica”.
Sì, perché l’uomo misterioso interpretato da Mastandrea non usa troppi giri di parole: “Vuoi che tuo figlio guarisca dal tumore? Si può fare, ma devi trovare una bambina da uccidere”, oppure “Vuole che suo marito non abbia più l’Alzheimer? Si può fare, deve però costruire una bomba e uccidere un certo numero di persone”, oppure ancora “Vuoi ritrovare la refurtiva di quella rapina? Si può fare, basta che picchi a sangue qualcuno”, e via discorrendo.
Valerio Mastandrea - Foto Karen Di Paola“Il personaggio di Valerio non è definibile, è un film dove ognuno si confronta con se stesso. Possiamo immaginare si tratti di quel qualcuno, o qualcosa, con cui ci confrontiamo quando ci troviamo a dover fare i conti con noi stessi”, aggiunge Genovese, che riconosce quanto fosse delicato quel ruolo perché “da un lato doveva mostrare una neutralità assoluta nei confronti di tutti loro, dall’altra una minore o maggiore giustificazione rispetto a quello che ogni personaggio era chiamato a fare”.
“Ma non l’ho mai pensato come un'entità mefistofelica, piuttosto come uno specchio di ognuno di loro”, racconta Valerio Mastandrea. “È un personaggio che può anche non esistere. L'empatia col dolore degli altri era una chiave, ogni ciak dovevo cercare di reagire a quello di diverso che mi veniva raccontato”, dice ancora l’attore, che sta ultimando la postproduzione della sua opera prima, Ride, e ha da poco iniziato a lavorare nel nuovo film diretto da Valeria Golino, EUPHORIA.
Anche Sabrina Ferilli pensa che il personaggio di Mastandrea – non a caso senza nome – sia “quello della coscienza, mentre io potrei qualsiasi cosa, anche una sua visione. Credo si tratti di un film molto misterioso, difficile da spiegare. Non c’è un giudizio, ma tutto ruota intorno al libero arbitrio di ciascun personaggio”.
Sabrina Ferilli - Foto Karen Di PaolaUn film “coraggioso, che sovverte quel fastidioso luogo comune che vuole il cinema italiano incapace di confrontarsi con film diversi dal solito, senza riuscire a spiccare il volo”, conclude Giampaolo Letta di Medusa, che ha prodotto The Place insieme alla Lotus di Marco Belardi.