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"L’idea di partenza è nata quando ho visto in tv le immagini dei dirigenti Air France a cui un manipolo di dipendenti furiosi ha strappato le camicie. Lì per lì ho provato un sentimento di umana empatia nei confronti di quei dirigenti, poi mi sono chiesto che cosa avesse potuto spingere le persone ad una reazione così rabbiosa, così violenta. Perché un'azienda, pur in profitto, chiude i battenti? E con questo film ho voluto creare l'immagine mancante che spesso non viene mostrata dagli eventi che vengono trasmessi in tv”.
Stéphane Brizé accompagna l’uscita italiana del suo En guerre (In guerra, dal 15 novembre in sala distribuito da Academy Two), dopo i numerosi apprezzamenti ricevuti all’ultimo Festival di Cannes (pur rimanendo misteriosamente fuori dal palmares finale), film che dopo la parentesi in costume di Une vie riporta il regista francese a confrontarsi con la realtà dei nostri giorni.
Stéphane Brizé e Vincent Lindon - Foto Pietro CocciaTorna così a dirigere (per la quarta volta) Vincent Lindon, che ritrova tre anni dopo La legge del mercato, e si immerge nuovamente nelle dinamiche del mondo del lavoro: nonostante i sacrifici economici dei dipendenti e l’aumento dei profitti dell’ultimo anno, i dirigenti della Perrin Industries decidono di chiudere una fabbrica in Francia. Tutti gli operai, rappresentati dal portavoce Laurent Amédéo (Lindon), decidono di opporsi strenuamente a questa decisione, pronti a qualsiasi cosa pur di non perdere il lavoro.
“Come attore impersono un ruolo”, risponde Lindon quando gli si chiede quale particolare preparazione abbia dovuto affrontare per questo film, aggiungendo: “Non vado a studiare i luoghi, o le persone, il mio modo di lavorare è agganciato a quelle che sono le mie fantasie relative a un personaggio o a un altro. Nella vita di tutti i giorni osservo i gesti, ascolto le parole delle persone, e sono cose che mi tornano utili quando con la mente devo tornare ad atteggiamenti o parole che poi devo utilizzare per un film o per un altro. Un attore è semplicemente uno strumento nelle mani di un artista, un regista che in questo caso ha saputo creare una situazione reale, credibile. Qui incarno un personaggio emblematico per far riflettere sulla possibilità di un risveglio delle coscienze”.
Risveglio che passa inevitabilmente dall’impossibilità di scendere a compromessi:
“Il gesto delle camicie strappate di cui parlavo prima è figlio di una collera che si trasforma in violenza, non c'è nulla di rivoluzionario in questo. L'ira non è sufficiente a porre le basi per la rivoluzione, che invece credo debba poggiare su idee politiche che nascono dal pensiero, da ragionamenti intellettuali”, spiega Brizé, che aggiunge: “In Francia oggi come oggi non esistono più figure intellettuali carismatiche in grado di sviluppare un pensiero guida. Ed è la vittoria del potere, in mano al mondo della finanza, frutto di 30-40 anni di leggi votate sia dalla destra che dalla sinistra, che permettono a qualsiasi azienda di aprire e chiudere a proprio piacimento, a discapito dei lavoratori. Logica che fa arricchire esponenzialmente i padroni, gli azionisti e manda in rovina tutti gli altri. Certo un film magari non può molto, ma la speranza è che possa contribuire a far riflettere le persone su come funzionino certe cose”.
Meccanismi che il regista evita di affrontare in maniera apertamente partigiana:
“La cosa importante nel far cinema per me è non tradire mai i ragionamenti delle persone, senza ridicolizzare nessuno, né i lavoratori, né i politici, né i vertici dell'azienda, perché lo spettatore deve farsi una sua idea su quello che è il meccanismo disfunzionale di alcune logiche relative al mondo del lavoro. Quella collera – dice ancora Brizé – monta in seguito a settimane, mesi di tentativi di ottenere un dialogo costruttivo. La parola più ricorrente che si usa nel film è competitività, in qualche modo colpevolizzando gli operai, ma in bocca ai potenti assume un altro significato, quello della redditività. La battaglia del film è anche semantica”.
Ma è anche, e soprattutto, una guerra di trincea, fatta di scioperi, occupazioni, picchetti e asfissianti corpo a corpo tra la forza lavoro e le forze dell’ordine:
“Io non ho un'opinione politica, ho un sentimento politico, diceva un cantante. E faccio mio questo pensiero. Facendo questi film io mi schiero con chi ha di meno. Siamo troppi su questo pianeta e c'è una sperequazione vergognosa delle ricchezze. Dovremmo svegliarci e fare qualcosa per fare in modo ci sia una ripartizione più equa delle risorse e delle ricchezze”, dice Vincent Lindon, che sull’attuale situazione politica mondiale aggiunge: “Il mondo è governato dall'1% della popolazione, che detiene il 99% delle ricchezze. L'essere umano è per natura egoista, gli importa poco di chi è al potere a condizione che questi non gli rompano le scatole. Le persone non vogliono problemi, si accontentano del proprio orticello, ma sono anche scoraggiate perché sanno che i potenti di loro se ne fregano”.
Ma basta questo a spiegare le derive populiste ed estremiste dell’ultimo periodo?
“Non credo che la mia analisi possa fare la differenza, ma mi sembra evidente che il nostro mondo si fonda sulle paure e nelle cabine elettorali si trasformano in voti per le compagini estremiste. Temo però che così facendo si va proceda verso qualcosa di tragico”, dice Brizé, che conclude: “Non siamo noi però le persone più giuste per poter rispondere a certe cose. In fondo un regista fa i film, un attore recita, ognuno di noi deve limitarsi ad essere testimone della propria epoca”.
E ad andare In guerra, se necessario. Perché come ricorda il Bertolt Brecht in esergo al film, "chi combatte rischia di perdere. Chi non combatte ha già perso".