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Con il Sesto senso ha conquistato il pubblico che ancora ricorda l'emozione di quel film, ma nei dieci anni successivi ci ha abituato a grandi sorprese come anche a film capaci di stravolgere ogni aspettativa. Da sempre ama giocare con il cinema e con i suoi generi. E ce lo conferma in questo nuovo thriller, The Visit (in sala dal 26 novembre con Universal) con il quale punta a risollevare le sorti della sua carriera dopo un paio di titoli che son sembrati meno personali e convincenti. Oggi M. Night Shyamalan guarda alla tv (come produttore - e regista del primo episodio - di Wayward Pines per la Fox), ma anche a un cinema più piccolo. Nelle dimensioni, non nelle emozioni.
The VisitStavolta tutta l'azione si svolge in una casa fuori città, come avete scelto questo set?
Mi hanno ispirato i dipinti di Andrew Wyeth. È uno dei miei artisti preferiti, e vive vicino a me nella campagna della Pennsylvania, un posto che amo, anche perché mi ricorda l'Inghilterra in certi tratti. Questo si vede nei suoi dipinti e questo avevo in mente: una ambientazione che si è rivelata perfetta. Abbiamo persino trovato una fattoria che stavano cercando di vendere. Li ho convinti che sarebbe stato più facile dopo averla mostrata in un film e son riuscito ad affittarla per sei mesi. E a un prezzo bassissimo. È stato un affarone.
Anche perché è stato un elemento fondamentale per il film.
L'abbiamo usata per la preproduzione, per tutti i trenta giorni di riprese e per la post produzione, quando magari dovevamo tornare a fare riprese aggiuntive. Ma soprattutto per la possibilità di realizzare lo storyboard direttamente nella casa, immaginando i movimenti degli attori e i momenti più spaventosi. Inoltre poter provare sullo stesso set è stato ottimo, in primis per i ragazzini.
La location del filmE gli altri? È stato difficile fare tutto, abituato a produzioni di altro livello?
Ho imbrogliato! Ovviamente non sono un esordiente e non ho dovuto convincere ogni singolo elemento della crew. Che è quello che ti trovi a dover fare quando realizzi un primo film. Ho potuto contare su professionisti di prima classe, che hanno partecipato a prezzo ridotto, visto il budget di 25.000 dollari. O ami fare cinema in questa maniera, o c'è un grosso problema. E questo lo scopri quando ingaggi la gente, e li guardi negli occhi. Io ho visto l'entusiasmo di farlo, l'amore per la storia.
Questo si è poi tradotto anche sul set?
Si, perché l'abbiamo girato alla vecchia maniera - come è stato anche per Wayward Pines - impedendo a chiunque di guardare il girato in digitale. Costringevo tutti a venire a casa mia la sera per vedere i giornalieri. Ogni giorno, per trenta giorni. È stata una esperienza condivisa, uno sforzo comune.
Sembra davvero il suo ideale.
Molti dei miei film preferiti sono indipendenti. E i miei eroi - sin da piccolo, ma anche oggi - sono sempre stati quei registi che hanno continuato tutta la vita a girare film di un certo tipo, come Allen, i fratelli Coen, Eastwood in un certo senso. Per me in qualche maniera è stata una prima volta, anche se molti dei miei thriller son sempre stati film 'piccoli'. Se non ci fosse stato Mel Gibson, anche Signs sarebbe stato un piccolo film come questo.
Quanto alla scelta formale, tra il documentario e il found footage, era nei piani sin dall'inizio?
Si, sapevo di voler lavorare su un simil-documentario sin dall'inizio. Sapevo come avrei realizzato ogni scena, sin dalla scrittura. Se leggeste lo script lo capireste, dalle note e dalle indicazioni. È tutto lì, specificato, dalle azioni dei ragazzi a come la macchina da presa li segue nei vari momenti. Ogni dettaglio è nello storyboard. Anche se poi, tra documentario e found-footage, il mio è forse più un ibrido.
È un’esperienza che farà di nuovo?
Sicuramente. Sto terminando di scrivere una nuova storia che potrebbe facilmente diventare tanto una mega-produzione quanto un piccolo film. Ci ho pensato molto negli ultimi due o tre mesi, ne ho anche parlato in famiglia e in ufficio, ma alla fine ho deciso di farlo di nuovo. Più piccolo possibile, un'altra volta. È stata una esperienza così “pura”…
Quanto all'ispirazione, da dove viene?
Da più temi, quelli che mi colpiscono. Dall'attacco alieno visto dal punto di vista di una famiglia a come ci sentiamo invecchiando. Ci sono sempre le nostre paure, primordiali, alla base di tutto. Viste anche dal punto di vista di due bambini. Mi son chiesto se potessi “giocarci”.
Quindi non ha dei vicini anziani e spaventosi in Pennsylvania?
No, no. Cercavo più un'atmosfera alla Hansel e Gretel moderni.
Tanto moderni da sfruttare strumenti come gli smartphone, che ormai sembrano fare di tutti dei registi. Possiamo vederci una critica di questa tendenza?
Si, certo, è così. Ma in generale ho sentito il film anche come una conversazione tra un vecchio modo di fare cinema e un altro permesso dai nuovi strumenti: volevo che questi due piani si scontrassero. Rappresentati dai due fratelli, uno con un approccio alla Kardashian e l'altra più Old School.
Invece, la nuova storia che sta scrivendo, sarà un altro horror? O un documentario?
No, questa volta sarà un thriller.
Soprannaturale?
Chissà, non si può mai dire… Ma io credo che tutti i miei film siano thriller in fondo. Sono storie colme di mistero, e sempre con elementi che spaventano. Sinceramente, spero che tutti, a modo loro, siano capaci di rompere la barriera tra i generi. Anche nel caso di questo progetto, che può far paura come ridere, ma che vorrei finisse con l'essere più un thriller oscuro, adulto.
E sempre confinato in una location ridotta, giusto?
Non come The Visit, ma abbastanza. D'altronde è la storia a richiederlo. Attualmente stiamo cercando le location nelle quali ambientare le due diverse linee che la narrazione segue. Ma anche quando pensi di avere tutto chiaro, poi mentre ci lavori le cose possono cambiare.
Anche gli attori? Ha già qualcuno in mente?
In mente, sì. Come sempre. Lavoro sempre pensando a un modello, un archetipo. Mi aiuta a essere specifico, reale. Poi dipende tutto dalla disponibilità dell'attore una volta che iniziano le riprese. Speriamo...
(Intervista pubblicata sul numero di settembre 2015 della Rivista del Cinematografo)