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Si definisce un "pessimista sorridente" Patrice Leconte perché, dice, "non si può non essere negativi calandosi nella realtà. Ma lo si può fare sempre con il sorriso".
Tra i registi francesi il meno etichettabile, Leconte ha la capacità di cambiare continuamente genere e registro mantenendo tocco personale ed empatia col pubblico. Dopo l'algido mélo in costume e in lingua inglese presentato a Venezia due anni fa - A Promise (2013) - si riaffaccia sul panorama italiano con una commedia che più spensierata non si può, Tutti pazzi a casa mia (dal 29 ottobre in sala, distribuzione Filmauro), già campione di incassi in patria.
Tratta da una pièce di successo, Un'ora tranquilla, scritta e diretta a teatro da Florian Zeller (qui sceneggiatore), narra delle disavventure di Michel Leproux, un agiato dottore parigino con la passione per il jazz. Un giorno, al mercato delle pulci, s'imbatte per caso in un introvabile 33 giri , Me, Myself and I di Niel Youart, a suo dire uno dei dischi leggendari del jazz. Dopo averlo acquistato per pochi euro, si catapulta a casa con l'intenzione di gustarselo comodamente in salotto, ma prima la moglie, poi gli operai, in seguito il figlio, l'amante e infine un vicino impiccione, gli renderanno la cosa impossibile.
Classica commedia degli equivoci, dal ritmo indiavolato e dal climax irresistibile, Tutti pazzi a casa mia è un'ora e venti di pura evasione, come quella che "ciascuno di noi vorrebbe concedersi una volta nella vita", spiega Leconte, a Roma per promuovere il film. "La frenesia deriva spesso dai modi e dai tempi di lavorazione: mi sono messo la camera in spalla, come in un reportage, e ho girato tutto in cinque settimane", aggiunge il regista, che una volta finito il montaggio confessa "di avere avuto molta paura della durata. Mi sembrava un film troppo breve, ma il produttore mi rassicurò dicendo che durava quanto La cena dei cretini, uno dei più grandi successi del cinema francese."
Tutti pazzi a casa miaLeconte, che al contrario del suo film si definisce "uno molto attivo ma calmo", non risparmia qualche frecciatina alla borghesia egoista del film perché "più possiedi e meno ti curi degli altri". E una stilettata la riserva anche a Fabrice Luchini, interprete della piéce ma non del suo adattamento su grande schermo: "In un primo momento aveva accettato, poi si è tirato indietro. Ma in fondo è stato un bene: il suo sostituto, Christian Clavier, possiede tempi comici che lui non ha". E mentre rigetta ogni affinità con l'egocentrico Michel del film, giura anche lui amore eterno per il jazz, "un genere musicale che prima non apprezzavo, ma che poi ho scoperto essere estremamente variegato e di cui mi sono innamorato". Anche se il disco che funge da motore narrativo è una pura invenzione scenica: "Però il brano che ascoltiamo esiste davvero, anche se adesso non ne ricordo il titolo".
Andando più sul personale, Leconte confessa di dovere tutto al padre, un "autentico cinefilo" che da piccolo lo portava spesso al cinema: "A impressionarmi di più fu però un festival di cortometraggi: quei corti mi sembravano sogni che si potevano realizzare". Magari non con la stessa facilità che credeva da bambino: "Ogni film è difficile. Io poi mi imbarco sempre in progetti che non sono sicuro di poter portare a termine. D'altra parte è l'unico modo che mi obbliga a raddoppiare gli sforzi: quando siamo certi di farcela, prendiamo le cose sotto gamba ed è allora che falliamo".
Leconte se ne infischia del patentino d'autore, anche se il suo cuore batte per i maestri, a incominciare da quelli italiani: "Fellini, Visconti, Antonioni e molti altri come Olmi, Zurlini, Scola - dice - sono riusciti a conferire eleganza alla fantasia e all'immaginazione. Un'eredità raccolta in anni più recenti da Paolo Sorrentino. La grande bellezza è un capolavoro assoluto".
Anche il modesto Leconte però una piccola ambizione la coltiva: "Una volta Wim Wenders ha detto che faceva film per rendere il mondo un posto migliore. So che sembra una frase presuntuosa, ma è la migliore cosa che si possa dire sul cinema".