“Fare una seconda regia, perché no? Da parte mia, c’è tutta l’intenzione, sebbene il giudice ultimo sia il pubblico”. Giorgio Pasotti guarda oltre il suo fortunato esordio dietro la macchina da presa, Io, Arlecchino, diretto a quattro mani con Matteo Bini, prodotto da Nicola Salvi ed Elisabetta Sola per Officina della Comunicazione con Rai Cinema e distribuito da Microcinema.

La storia è quella di Paolo (Pasotti), noto conduttore di un talk show televisivo, che viene raggiunto a Roma dalla notizia del ricovero del padre Giovanni (Roberto Herlitzka) in ospedale in provincia di Bergamo. Anziano attore teatrale e famoso Arlecchino, Giovanni vuole continuare a recitare con la sua piccola, devota compagnia: Paolo vola a Bergamo e lo rincontra dopo molto tempo...

Pasotti, Io, Arlecchino è esemplare di un modo di fare cinema legato alla tradizione (commedia dell’arte) e al territorio (Arlecchino), ma insieme aperto a nuove logiche produttive, proprio a partire dal "local": qual è la quadratura del cerchio?

Io, Arlecchino è nato dalla volontà di raccontare l'importanza della nostra storia, della nostra cultura e ancor di più di quanto sia importante tramandare tutto ciò da padre in figlio, di generazione in generazione. Sono fermamente convinto che il nostro cinema debba ritornare a riaffacciarsi ad un mercato internazionale che da troppo tempo è rimasto escluso. Per fare questo, raccontare la nostra cultura è non solo rispondere a una sempre viva curiosità da parte di spettatori stranieri, ma un pescare in un tesoro infinito senza costi di copyright. Insomma un modo, una strada da percorrere.

Quali storie meritano di essere raccontate?

Si possono raccontare storie di quartiere, storie piccole che diventano grandi perché chiunque se ne sente investito. In questo senso Io, Arlecchino racconta il rapporto di un padre e di un figlio, nulla di più. Storie e sentimenti che chiunque può capire e apprezzare. Lo dimostrano i 30 festival internazionali, americani, francesi, indiani, russi che lo hanno scelto e premiato. A fine aprile l’Università di Yale negli Stati Uniti presenterà il film come testimone privilegiato della cultura italiana e della commedia dell'arte e sarò chiamato assieme ai produttori a presentare agli studenti la costruzione del film e il suo modello produttivo.

Esordire alla regia e non nascondersi, anzi, puntare il dito: abbiamo rinunciato alla grandezza della commedia dell’arte per (dis)investire sulla piccolezza televisiva, Io, Arlecchino stigmatizza questa deriva o sbaglio?

"Amleto che ha quasi la mia stessa età è ancora all'apice del suo successo, mentre io sono stato dimenticato…". Questa è la frase che il nostro Arlecchino dice alla fine del film, del resto, noi (italiani) abbiamo un talento piuttosto spiccato nel dimenticare ciò che abbiamo, ciò che ci rende unici, in buona sostanza ciò che siamo. Voglio dire, “perché le radici sono importanti", citando un film che in questo senso non se ne è affatto dimenticato.

E la televisione?

La TV ha un grande potere, quindi una grande responsabilità: decreta i gusti, innalza a modelli di riferimento, ha enorme influenza. Nell'intrattenere non andrebbe mai perso di vista quel dovere (anche morale) di educare, formare i gusti dei fruitori.

Roma non è il cinema italiano, almeno, non il solo: Io, Arlecchino è una forma di resistenza culturale a un modello produttivo romanocentrico? Nel caso, serve un’estetica differente, o basta la lontananza geografica, per marcare la distanza?

Il modello produttivo di questo film non vuole mettersi in contrapposizione a quello romanocentrico. Con i produttori abbiamo voluto inaugurare di fatto un modello nuovo ed originale. Innanzitutto raccontando una storia dalla forte componente locale con contributi estetici, linguistici e tecnici che provenissero da altre culture.

Ovvero?

Nel nostro film hanno collaborato persone da tutto il mondo, da professionisti italiani a uno sceneggiatore franco-spagnolo, un direttore della fotografia inglese, un musicista inglese, sound design croato e coreano, legati a una produzione italiana, con fondi privati locali di gente che sentiva un senso di appartenenza alla maschera di Arlecchino, una vera factory... Sentivamo di dover collaborare anche con persone che non sentissero il peso di raccontare la "nostra storia", la "nostra tradizione" ma che la utilizzassero semplicemente per raccontare una storia, dei sentimenti, tutto qui. L’autonomia produttiva raggiunta grazie alla rete che i produttori hanno creato tra realtà private e istituzioni del territorio, unitamente al coinvolgimento di Rai Cinema, ha permesso di realizzare un film piccolo nei mezzi, ma non nella portata delle emozioni. La coerenza nel fare questo lavoro è sia una grande responsabilità che un difficilissimo traguardo.

E’ un’esperienza, quella della regia, che vorresti riprovare? Soprattutto, stando dall’altra parte, che cosa hai capito di nuovo del mestiere dell’attore?

L'esperienza della regia è totalizzante, rapisce anima e corpo per diverso tempo. È, in buona sostanza molto faticoso. Ma, ahimè, è al tempo stesso una piacevolissima droga di cui è difficile privarsi. Ora, va capito se rimane un capriccio personale o se si hanno le qualità per (ri)farlo.

Agli spettatori l’ardua sentenza?

Di mio c'è una più che ferma volontà di riprovarci sicuramente. Essere attore in Italia non è facile affatto, sono molto poche le opportunità di poter cambiare di personaggio in personaggio soprattutto per chi ha avuto "la disgrazia" di avere un grande successo popolare. Per molto tempo l’essere naturali, molto se stessi è stata considerata una qualità. Il mestiere dell'attore credo sia, invece, l'allontanarsi il più possibile proprio da se stessi, abbandonarsi, per dar vita a personaggi totalmente diversi, completamente estranei... e non c'è come stare dall'altra parte della macchina da presa che questo concetto si conferma con rara chiarezza.

Il regista, viceversa, che deve fare?

Credo che per un regista sia imprescindibile amare i personaggi che si raccontano, suggerire agli attori delle vie interpretative e, al tempo stesso, rimanere stupiti di fronte a lampi di creatività incontrollabile. Il regista deve per forza allontanarsi per avere un quadro d'insieme, a differenza dall'attore che per sua natura deve entrare quanto più possibile in un mondo e in un modo di pensare esclusivo di quel personaggio. In questo senso per un attore passare dall'altra parte della macchina da presa è ancora più difficile.