“Dopo tanti film drammatici, chiamiamolo un miscuglio di chili messicano, volevo il dessert: volevo riposare e abbandonare la mia zona comfort per far ridere. Sono saltato in un altro genere, con una nuova troupe: Birdman è per me un film sperimentale, mi faceva paura, ma dopo quattro anni fermo ci sta, eccome”. Parola del regista messicano Alejandro G. Iñárritu che torna dietro la macchina da presa conBirdman or The Unexpected Virtue of Ignorance, già film d’apertura in Concorso della 71esima Mostra di Venezia e trionfatore degli 87. Academy Awards con quattro Oscar per film, regia, sceneggiatura originale e fotografia.
Nel cast all star Edward Norton, Emma Stone, Naomi Watts e Zach Galifianakis, il protagonista è Michael Keaton che interpreta Riggan Thomson, già attore di enorme successo nei panni del supereroe Birdman (un franchise da tre titoli): ora ha scritto e sta dirigendo e interpretando a Broadway la celebre pièce di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore…
Iñárritu, perché ha voluto Keaton?
Non tanto perché aveva interpretato i due Batman di Tim Burton, sebbene non nego fosse un fatto importante, ma perché è stato un pioniere del genere, un supereroe globale, e la sua autorevolezza ci ha permesso qui di trovare la strada giusta tra drammatico e comico, e non era affatto facile sulla carta.
Birdman è un ardito elogio del piano sequenza, quanto è stato difficile realizzarlo?
Girando piani sequenza non c’era nessuna possibilità di nascondere e manipolare al montaggio: quel che vedete è verità, quel che vedete è libertà. Confesso, ho fatto vedere ad attori e troupe una foto di Philippe Petit che compie la traversata delle Torri Gemelle: senza filo, proprio come noi, perché Birdman non si poteva girare come un gadget, tutto è stato concepito meticolosamente, dalla prove alle riprese. Ma è stato uno sforzo piacevole.
Un progetto simile deve necessariamente puntare sull’immedesimazione del pubblico, sbaglio?
E’ vero, lo spettatore deve entrare nelle scarpe di Riggan, e non solo lui. Deve entrare in confidenza con le sue ambizioni solenni e insieme apprezzare l’humour del racconto: sì, difficile. Ma ciascuno di noi ogni giorno si deve scontrare con la realtà rispetto ai propri sogni: insomma, sappiamo che sta vivendo Riggan, perché è anche la nostra vita.
Ideologicamente, meglio, poeticamente, che film è Birdman?
E’ un film sull’Ego: tutti noi lottiamo con l’Ego, non solo gli attori, perché l’Ego ci inganna, mistifica la realtà o, meglio, quello che crediamo sia la realtà. Viceversa, non abbiamo bisogno di solleticarlo, non abbiamo bisogno di essere ammirati, ma di essere amati: affetto, non ammirazione.
I social network amplificano il problema? Il film parrebbe sostenerlo…
Ebbene, c’è una distinzione tra le mie opinioni e quelle del personaggio, non voglio essere un detrattore dei social network. Ma a 50 anni, per quel che mi riguarda, non ho tempo per una rete sociale e, forse, nemmeno voglio. Comunque, credo ci sia un reale pericolo di distorsione, manipolazione della realtà nei social: ognuno vi manifesta la propria opinione, dunque, la realtà può essere distorta da tutti, e l’obiettività finisce a pezzi. C’è una corsa sfrenata a chi arriva primo sulle cose, sulle notizie: questo è un grave problema per la professione giornalistica, non c’è uno spazio di riflessione, di intendimento.
Dunque, Ego da mettere alla berlina, soprattutto per gli attori.
Che sia potere politico, mediatico, economico, il problema è sempre lo stesso: l’esasperazione dell’Ego, che può portare alla disperazione, alla distruzione il soggetto. E non riguarda solo gli attori, come recentemente Philip Seymour Hoffman e Robin Williams, ma anche banchieri, politici, giornalisti e altri ancora: il suicidio, purtroppo, è un’opzione.
Messicano, lavori a Hollywood: c’è una differenza tra cinema commerciale e cinema d’autore?
La distinzione principale è un’altra: esistono buoni film e cattivi film, e possono essere indifferentemente commerciali o d’autore. Il problema, però, è un altro: il cinema buono fa molta fatica ad arrivare la pubblico di massa, perché l’eccesso di zuccheri, ovvero di cattivi film, toglie la sensibilità, il gusto, il palato per quelli di valore.
Il finale? Non so se è una possibilità di redenzione o meno: spero ci siano tanti finali quanti sono gli spettatori.
Viceversa, di musica ce n’è una sola, ed è l’apoteosi della batteria, targata Antonio Sanchez.
Sì, mi serviva per dettarci il ritmo: una commedia in piano sequenza poteva essere un suicidio…
Intervista di Federico Pontiggia pubblicata sul numero 1/2015 di Vivilcinema, bimestrale FICE diretto da Mario Mazzetti