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Quando si parla di Nicolas Rey è facile cadere in inganno: non ha alcun rapporto con omonimi scrittori e cineasti francesi, e non si chiama così in onore del Nicholas Ray americano. Questo è il suo vero nome, ed è nato nel 1968 a Valence, in Francia. Il primo lungometraggio l’ha girato nel 2001, dal titolo Les Soviets plus l’électricité. Dopo ha realizzato altri due film, ma nessuno è giunto sui nostri schermi. Perciò arriva puntuale e necessaria la retrospettiva che la 53a Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro gli ha dedicato quest’anno. Nicolas Rey si è raccontato ai microfoni di Cinematografo.it.
Qual è la sua idea di cinema?
Il cinema unisce suono e immagine. È qualcosa che deve mettere insieme una percezione visiva e una uditiva. Entrambe vengono riprese con due macchine diverse e poi devono diventare un solo corpo: è magia.
Da dove nasce il suo amore per la pellicola in un momento in cui tutti si sono convertiti al digitale?
Mi piace lavorare con la pellicola perché è uno strumento che mi permette di comprendere, apprendere e intervenire quando è necessario. Non si tratta di feticismo, ma di una passione per un modo di lavorare, per una tecnologia che in molti ritengono superata.
E che cosa pensa del digitale?
Sono consapevole del fatto che il digitale dia più libertà in fase di lavorazione, ma sotto un certo punto di vista lo definirei “totalitario”: impone le sue regole alla vita di un film. La pellicola consente di cambiare ogni elemento in qualsiasi fase, e questa possibilità supera i benefici offerti dai nuovi mezzi. Bisogna combattere contro “l’ideologia del digitale”. Tutti dicono che sia gratuito, facile da usare e democratico. Altri azzardano addirittura che non inquini. In parte è vero, ma non si tratta di qualcosa di inattaccabile. Non è una rivoluzione: è un amplificarsi del processo industriale che è stato al centro del secolo scorso. E tutta questa “innovazione” ha già dato vita a molti disastri. Bisogna salvare il cinema.
Si sente un regista di avanguardia?
In realtà penso di appartenere alla “retroguardia”. Chi è all’avanguardia è l’Italia: noi francesi la stiamo inseguendo da anni. Prima c’è stato Berlusconi a Roma, poi Sarkozy a Parigi. Dopo siete passati a Renzi e adesso noi abbiamo Macron.
Da dove prende ispirazione per i suoi film?
Spesso parto da una gran voglia di esplorare l’ignoto. L’obiettivo è quello di sperimentare, di dare spazio a qualcosa di nuovo, lontano da ogni canone. Mi interrogo sulla forma, sul volto che voglio dare alle mie storie. Muoversi su sentieri inesplorati non è sempre un vantaggio, spesso si rischia di sbagliare perché i pericoli sono molti. I miei film richiedono un approccio diverso, non convenzionale.
Cosa può dirci di questa avventura chiamata L’Abominable?
L’Abominable è un atelier cinematografico condiviso che è stato creato nel 1996 da una decina di persone. Si tratta di un laboratorio, di una fucina di idee. All’inizio avevamo a disposizione alcune cantine private e riuscivamo a sviluppare al massimo una bobina da tre minuti di pellicola. Con certi macchinari realizzavamo anche alcune copie. Abbiamo avuto molta fortuna, perché siamo rimasti in quelle stanze per quindici anni e sempre più cineasti si univano a noi, non solo nell’ambito del cinema sperimentale. Piano piano siamo cresciuti, diffondendo i nostri film e avendo a disposizione attrezzature sempre più potenti: super 8, 16 mm e 35 mm non erano più irraggiungibili. Intanto incombeva il digitale, e molte realtà sono state costrette a chiudere o a convertirsi. Altri si sono dedicati soltanto ai restauri. Noi siamo sopravvissuti e oggi l’Abominable è diventato un luogo in cui trasmettere questa cultura del lavoro artigianale. Ogni anno ci mettiamo a disposizione di quaranta nuovi “soci” che hanno voglia di imparare. Collaboriamo anche con cineteche e archivi, e seguiamo ogni progetto dalla nascita. Spero che la digitalizzazione non rovini tutto.
Da chi è stato influenzato durante la sua carriera?
Non solo da registi. In particolare dalle idee Marx e dalla musica di John Coltrane. Per quanto riguarda il cinema cito la grande Marguerite Duras, che ha iniziato come scrittrice.
Dziga Vertov diceva di essere “l’occhio meccanico”, capace di mostrare una nuova realtà. Qual è la realtà che lei vuole raccontare?
Sicuramente non una realtà ideale. Bisogna utilizzare anche l’immaginazione, ma senza perdere di vista quello che si vuole raccontare. Le tele di Rothko sono di grande forza visiva perché non perdono il contatto con il mondo, nonostante siano astratte. Credo che questo valga anche per il cinema.