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“Non si capisce quel che si fa in un film, è una cosa deliziosa. Prima dei giornalisti non si rendevano conto che con le loro domande mi stavano informando sul film che avevo fatto…”. Parola o, meglio, one man show di Fabrice Luchini, la star francese protagonista de L’hermine, in Concorso a Venezia 72. Scritto e diretto da Christian Vincent, il film, applaudito in proiezione e conferenza stampa, ha per protagonista il presidente di Corte d’Assise Xavier Racine (Luchini): non ha una buona nomea, per le pene in doppia cifra che commina e, ancor più, per l’abitudine ad asservire il processo al proprio spirito di protagonismo. Al tribunale si dibatte il caso di una neonata uccisa, parrebbe, a calci: il sospetto è il padre, che però si dichiara innocente. Tra i giurati c’è una vecchia conoscenza di Racine, Birgit Lorensen-Coteret (Sidse Babett Knudsen), l’anestesista che si prese cura di lui durante le sette settimane passate in ospedale sei anni prima: Racine ne è, ancora, innamorato.
“Christian nel film dà la parola come un novello Socrate, pratica la dialettica e realizza un piccolissimo miracolo: oddio che strazio, ci annoieremo da morire in quell’aula di tribunale, e invece no, siamo invitati a entrare nel processo, siamo invitati a conoscere i giurati e gli imputati, persone modeste del nord schiacciate dalla vita”, dice Luchini, grande attore teatrale e cinematografico che recentemente abbiamo potuto apprezzare in Moliere in Bicicletta e Nella casa. Sulla stessa lunghezza d’onda è Vincent, che osserva: “Cerco il Paese nei miei film, la gente che fa il mio Paese. Prima della sceneggiatura, non conoscevo nulla della giustizia, poi in tribunale ho trovato una sorta di teatro, con scene e interpreti”.
L’humus sociale inquadrato da L’Hermine è, appunto, quello del Nord della Francia che è, spiega Luchini, “un paese all’interno della Francia, un paese che è abbandonato, dunque la gente beve molto e vota Fronte Nazionale. Il nostro Nord è un isolotto di disperazione, viceversa, in Italia al Nord ci sono i ricchi e i duri, non è la stessa cosa”.
Su questa prova, con cui si candida di diritto alla Coppa Volpi, e più in generale sul suo lavoro cinematografico, Luchini dice: “Non ho molte emozioni personali per film, non importa il mio piacere, ma che io sia elemento di un tuttuno. A teatro sono padrone del mio gioco, al cinema un attore è materiale vuoto, trasportato: non ho mai bei ricordi del set, ma sono pagato bene per il mio lavoro, e lo faccio”.