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“Non volevo giudicare i miei personaggi o cadere nel classico stereotipo del jihādista che si fa crescere la barba”, a parlare è il regista tunisino Mohamed Ben Attia alla presentazione, condotta da Federico Pontiggia, del suo ultimo lungometraggio intitolato Dear Son e presentato al Med Film Festival.
Il film affronta il tema dei foreign fighters che nel proprio paese ha rappresentato un fenomeno cospicuo, e lo tratta dal punto di vista di chi resta: i genitori che scoprono improvvisamente che il proprio figlio è partito a combattere in Siria.
“Stavo ascoltando la radio e ho sentito la testimonianza di un padre che raccontava la sua storia simile a quella che ho deciso di affrontare nel mio film. Ne rimasi così colpito che subito dopo chiamai la radio per entrare in contatto con lui”, dice il regista sulla genesi del suo lungometraggio il cui protagonista è un giovane ragazzo, di nome Sami, interpretato da Zakaria Ben Ayyed, che si prepara ad affrontare l’esame di maturità e che soffre di forti mal di testa tanto che il padre, preoccupato, cerca in ogni modo di risolvere questo suo problema, scoprendo solo poi amaramente che il male di vivere di suo figlio è sintomo di qualcos’altro.
“Ho sofferto per molto tempo di emicrania- dice Mohamed Ben Attia- Conosco molto bene cosa vuol dire. Quando vivevo ancora con i miei mio padre spesso mi domandava: hai mal di testa?
Io rispondevo di no perché non volevo che fosse tutto riportato a questo. Esattamente come il personaggio del film che è il primo a mentire. E’ lui stesso a non capire da dove viene questo suo male di vivere, così intimo e complesso e difficile da spiegare”.
Prodotto dai fratelli Dardenne, come sempre il suo Hedi, un vento di libertà (2016), il film è stato presentato in anteprima all’ultima Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes e racconta quindi il fenomeno “complesso e sfaccettato” della radicalizzazione jihadista. “Più conosciamo una storia e più possiamo farne un racconto universale. Il cuore della mia pellicola sta nella paura che abbiamo di restare soli e nella difficoltà dello stare insieme nella vita di coppia. Non so perché una persona sceglie di unirsi ai gruppi jihadisti. Sicuramente ci sono casi di marginalità sociale, altri di ultra ortodossia religiosa. Ma è difficile generalizzare perché chi va a fare la jihād viene da paesi diversi e condizioni sociali e professionali differenti. Io volevo mettere in luce un malessere esistenziale, un’insoddisfazione di vita alla quale è difficile dare delle spiegazioni”, racconta il regista.
E’ proprio questo vuoto che spinge il personaggio a fare qualcosa di inimmaginabile. “Qui non si tratta di marginalità sociale perché la sua è una famiglia borghese e non si tratta di soldi- prosegue- Ma qualsiasi spiegazione univoca a una situazione così complessa avrebbe ridotto e banalizzato le cause difficili e sottili di questo tipo di scelta”.
Infine conclude: “Sami viene da una famiglia borghese come tante, come quelle occidentali. La divisione tra quello che accade da una parte o dall’altra del Mediterraneo non ha senso di esistere in questo film”.