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“Israele è schizofrenico quanto l’Italia, ci sono al potere persone volgari e kitsch come quella che ha governato l’Italia lungamente nel precedente governo (Berlusconi, NdR), ma anche persone equilibrate e intelligenti. Persone come quelle del primo tipo hanno fatto sì che l’Italia fosse d’ispirazione al mondo, ma non in maniera positiva”. Parola del regista israeliano Amos Gitai, che porta in Concorso a Venezia 72, Rabin, the Last Day, che si candida sin d’ora a un premio importante.
Il film torna al 4 novembre 1995, un sabato sera, e all’ultimo comizio del premio Nobel per la Pace: Rabin fu ucciso con tre colpi di pistola da un 25enne studente ebreo oltranzista, “armato” da una retorica isterica, dalla paranoia e gli intrighi politici guidati da rabbini, politici di destra e coloni. Non indenne da responsabilità la polizia e le forze di sicurezza, che avrebbero dovuto proteggere Rabin e invece fallirono miseramente. Combinando materiale di repertorio e ricostruzione, Gitai firma un thriller politico poderoso e informato, portando sullo schermo i dibattimenti in seno alla commissione Shamgar, istituita dal governo per indagare le responsabilità delle forze di sicurezza israeliane.
“Per fare la pace, come in una relazione, l’intento non può essere unilaterale, c’è bisogno – dice Gitai - di considerazione reciproca. Non voglio santificare Rabin, ma lui è stato uno dei pochi a capire questo concetto”, mentre “per qualche motivo, la società israeliana è stata misericordiosa con l’assassino rilasciandolo dopo pochi anni, forse perché è stato solo il braccio di qualcosa di più grande. Per questo non ne ho voluto fare il centro del film, non volevo idealizzarlo”. Viceversa, di Rabin Gitai ha avuto una diretta conoscenza: “Ho visto Rabin più volte e l’ho anche intervistato: lo apprezzavo perché era una persona semplice, magari poteva essere brusco a volte, ma tutto quello che diceva veniva dal cuore, non cercava di manipolarti. Lui è il tipo di israeliano che mi piace, tanto che venne apprezzato anche dai leader arabi dell’epoca”.
Sulla realizzazione di Rabin, the Last Day, Gitai punta il fuoco sugli attori: “Penso siano stati bravissimi, nonostante abbia voluto mantenere il film su un piano fattuale e realistico, mentre di solito cerco maggior dialogo, cerco di ispirarli. Il cinema è come l’architettura, non la si può fare da soli, è un lavoro collettivo”. Infine, due considerazioni geopolitiche.
La prima su Israele: “Mi preoccupa molto nella società israeliana attuale l’apparente mancanza di interesse verso i diritti, quelli delle donne e quelli umani. Mi sembra che Israele si stia ri-ghettizzando, ed è qualcosa che mi preoccupa molto”. La seconda sul mondo intero e il ruolo del cinema: “Attraversiamo un momento difficile e l’arte si deve fare avanti e parlare: non può cambiare la realtà come fanno le armi, ma il cinema è il mio modo di contribuire e quello in cui riesco a esprimermi meglio”.