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Gianfranco Rosi ha presentato sabato alla 66. Berlinale il suo docu-film su Lampedusa, Fuocoammare. Il regista ha vinto nel 2013 a Venezia il Leone d’Oro per Sacro GRA, un documentario con nove protagonsiti girato sul Grande raccordo Anulare di Roma. Il nuovo lavoro è un inno al valore morale delle immagini.
È andato a Lampedusa per girare un film e ci è rimasto un anno. Cosa è successo?
Non sono un uomo, né un regista, in grado di riassumere una realtà complessa come quella di Lampedusa, velocemente.
La prima persona che ha incontrato?
Il dott. Pietro Bartolo, responsabile per il primo soccorso dei rifugiati quando vengono fatti scendere dalle barche.
Il protagonista, il piccolo Samuele, conduce una normale vita da figlio di pescatori a poche centinaia di metri dalla più grande tragedia di questi giorni. Un mondo parallelo?
Quando arrivai sull’isola il centro di prima accoglienza veniva ristrutturato, ingrandito, per questo all’inizio non vedevo rifugiati, perché lì non c’erano rifugiati. Per questo il mio primo contatto con l’isola è stato con la gente di Lampedusa. Con il mondo come noi lo conosciamo. Poi il centro ha aperto e il film si è spostato su quella realtà.
Ma c’è un terzo mondo, quello dei salvataggi in mare, delle operazioni militari sanitarie, che lei mostra con tanta forza nel suo lavoro.
Quel filo narrativo è partito in coincidenza con l’inizio dell’operazione di salvataggio Mare Nostrum, nel 2013. Questa parte del documentario è sulla frontiera estrema della morale.
Perché la contrapposizione di mondi paralleli?
Samuele è diventato una sorta di alter ego, in parte perché mi ricordava me bambino. Poi perché è diventato la trasposizione formale di una metafora della nostra percezione della tragedia dei rifugiati. Gioca alla guerra con l’amico e spara con pistole immaginarie. Deve andare dal dottore perché ha un occhio che non vede tanto bene, un occhio 'pigro’. E perché ha l’ansia, non respira bene. Proprio come noi, che non vogliamo vedere la tragedia che ci sta davanti. Nel buio cerca di cacciare un uccellino. Poi, appena lo illumina, invece di ucciderlo lo accarezza. E ci parla.
FuocoammareCosa mostrare, cosa non mostrare. È una domanda morale.
Credevo all’inizio che sarebbe stato troppo duro, impossibile, filmare quello che avrei visto. Poi, parlando con il capo delle azioni di soccorso, sono arrivato alla conclusione che avrei dovuto filmare la verità. Quindi anche i cadaveri. A quel punto ho sentito il mio lavoro come un dovere morale. Ma come farlo, come andare avanti? Ma era necessario.
Viene da chiedersi cosa sarebbe stato se l’Olocausto fosse stato filmato.
Quando esseri umani ci muoiono davanti agli occhi non dobbiamo distogliere lo sguardo.
Qual è il valore aggiunto, o diverso, di immagini cinematografiche, rispetto a quelle dell’informazione?
Le immagini cinematografiche, o d’arte, possono essere testimonianze assolute in grado di generare non solo l’attenzione, ma la riflessione. Per la prima volta nella storia siamo tutti testimoni di una catastrofe umanitaria in fieri. A differenza dell’Olocausto, o del Ruanda, le immagini ci stanno raggiungendo in tempo reale, non dopo. Non possiamo oggi dire, non sapevamo. Tutti sappiamo tutto. Le immagini che oggi gli artisti del mondo producono su tutto questo resteranno per sempre.