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“Il legame con il fatto di cronaca è solo il punto di partenza, il film poi prende una direzione del tutto autonoma e indipendente. Non ho nessun interesse, nessuno, a ricostruire le cose come si dice siano andate”.
Matteo Garrone lo ribadisce anche sulla Croisette, dove il suo Dogman passa in Concorso e, contemporaneamente arriva sugli schermi italiani, con 01 distribution, in 370 copie: “Non ho mai voluto incontrare i reali protagonisti, mi dispiace anche che questo film riporti sui giornali quel tremendo avvenimento, ma sento di poter dire che per me lo spettatore ideale di questo film è quello che non sa nulla di quella vicenda”.
La vicenda, naturalmente, è quella dell’omicidio del Canaro (Pietro De Negri), fatto di cronaca avvenuto a fine anni ’80 alla Magliana di Roma, che anche Vincenzo Cerami aveva già raccontato in Fattacci (Einaudi).
“L’ho letto, certo. Ma ripeto che non ci deve essere nessun accostamento. Come sempre, quando scriviamo una storia, cerchiamo di fare in modo che sia universale. Chi vuole andare a vedere questo film perché vuole ritrovare aspetti cruenti, sanguinolenti, è meglio che non vada perché rimarrebbe deluso. La violenza c’è, ma è una violenza più psicologica, legata all’incubo di chi vive con un’indole pacifica e rimane incastrato in meccanismi di violenza che gli sfuggono e non sa come uscirne”, dice ancora Garrone.
Che per Dogman (in Italia vietato ai minori di 14 anni) è tornato a girare a Villaggio Coppola, luogo già utilizzato ne L’imbalsamatore e, in parte, in Gomorra: l’ho scelto perché molto simbolico, quasi di frontiera, unico nel saper rendere quel livello di sospensione di cui avevo bisogno per ambientare questo strano western che è però metafora della nostra società contemporanea”.
E la storia è quella dell'ambiguo rapporto tra Marcello e Simoncino. Uno (Marcello Fonte), docile e mansueto, ben voluto dalla comunità, è il titolare del salone per cani della zona. L’altro (Edoardo Pesce) è un ex pugile che terrorizza l’intero quartiere.
“Con Marcello – racconta ancora il regista – l’incontro è stato immediato, perché ho capito lui sarebbe riuscito a dare tutte le sfumature necessarie al personaggio, anche quella dolcezza e quella umanità che erano fondamentali. Un Buster Keaton moderno, se vogliamo, portatore innato anche di quella strana comicità e non è un caso se nel film si possa rinvenire un certo legame con il cinema muto”.
Incontro, come racconta lo stesso Fonte, del tutto casuale: “Io facevo il custode al Nuovo Cinema Palazzo a San Lorenzo, a Roma, quando è venuta una compagnia di detenuti di Rebibbia che doveva fare le prove per uno spettacolo. Un attore di loro stava male da tempo, ma non aveva detto nulla perché voleva a tutti i costi partecipare alla rappresentazione. Ma è morto lì, nei bagni. E dato che loro hanno comunque mettere in scena lo spettacolo, anche in sua memoria, ho preso io la sua parte. E il casting del film di Garrone mi ha visto in quell’occasione”.
“Marcello, con questo approccio istintivo, emotivo, non tecnico nel senso accademico del termine, ha saputo dare al personaggio un calore e un’umanità che hanno reso poi il film così doloroso. In fondo è il racconto della perdita di un’innocenza”, spiega ancora il regista, che svela anche un curioso aneddoto su Fonte: “A 18 anni faceva gli stand-in sul set di Gangs of a New York di Scorsese, a Cinecittà, e lì si è fatto anche fotografare vicino a Leonardo Di Caprio. Chiese di farsi fare la foto a Daniel Day-Lewis, senza neanche sapere chi fosse”.