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Ho visto America Latina di Damiano e Fabio D'Innocenzo a Venezia, durante la Mostra del Cinema, dove il film era in concorso. Lo aspettavo da tempo. Ero curioso come tanti, ma la curiosità è un sentimento più conservativo di quanto non si pensi. Sono di conseguenza rimasto sorpreso e spiazzato dalla visione, sono inciampato nelle mie aspettative (ciò che per sbaglio chiamiamo curiosità) ma credo di essere caduto, come si dice, dalla parte giusta del letto. Proverò a raccontare velocemente quello che, vedendo, ho sentito, e di come il film si è mosso dentro di me in questi mesi.
Arte della fuga
Ho amato molto Favolacce. Avevo amato anche La terra dell'abbastanza. Se la curiosità, come scrivevo, può ridursi a un sentimento conservativo, figuriamoci l'amore. Ecco che qualche spettatore, forse per un amore di continuità nelle proprie aspettative, ha prima creduto di rintracciare un legame sin troppo saldo tra i due film, poi ritenuto che il filo rosso dovesse scorrere all'insegna di un mai troppo chiarito neo- neo- neo-realismo, e infine che dovesse stringersi anche al collo di America Latina. Per fortuna il mondo dei D'Innocenzo è più vasto di così.
In realtà una prima cesura (ce ne saranno altre, spero, a testimoniare la loro vitalità) nella cinematografia dei gemelli D'Innocenzo si apre già tra La terra dell'abbastanza e Favolacce, e viene portata alle conseguenze estreme con America Latina. Se l'esordio dialogava con il cinema di Caligari, Favolacce già dal titolo si smarca da quella posizione, annunciandosi da subito come la negazione del realismo. Come può essere reale una favola?
Favolacce era una tragedia inondata da un sole innaturale, America Latina ne è la parte notturna, la discesa nel sogno nero, nell'incubo. Bisogna lasciarsi andare. Io a un certo punto credo di averlo fatto, ritrovandomi in un film oscuro ed enigmatico ma soprattutto capace di raccontare in modo esemplare il cuore al tempo stesso fragile e sciagurato del nostro paese, soprattutto nella sua parte maschile. Chi voleva far tornare i conti a tutti i costi è rimasto deluso. Ma io credo che di film capaci di condurre lo spettatore giù nelle cantine e poi di lasciargli la mano ce ne siano sempre troppo pochi, e che gli artisti in fuga dalla propria rendita siano rari. Abituati gli occhi al buio di America Latina ho creduto di vedere, laggiù nei sotterranei, molto più di quanto mi aspettassi.
America LatinaL'Italia dopo il diluvio
La Latina del titolo sembra un aggettivo, in realtà è un nome proprio di città. Eppure Latina, la città, sembriamo vederla pochissimo nel film. Riconosciamo il suo fantasma congelato, lo spettro del luogo e quindi il demone sotto la pelle di chi ci abita. Il film cattura dentro una luce livida l'anima della provincia, che a propria volta è quasi sempre la cartina di tornasole dell'Italia. Ricordo quando vidi nel 2002 L'imbalsamatore di Matteo Garrone. Per la prima volta delle scene buone per la commedia all'italiana venivano mostrate in uno stato di congelamento, una deprivazione sensoriale di ciò che altrimenti sarebbe stato vivo in modo sguaiato e falso, una rappresentazione così convincente da farmi credere che un malessere non ancora censito, ma assai percepibile intorno a noi, avesse trovato qualcuno in grado di dargli forma. Con America Latina succede qualcosa di simile. È un film sul dentro, non sul fuori. C'è il sonno, non la veglia. Il buio, non la luce. Il freddo della solitudine, non il calore di una comunità. La malattia che scava, non la pelle in apparenza sana e levigata. Non vediamo l'arredo urbano di Latina ma un arredamento d'interni, quello della casa di Massimo, il dentista interpretato da Elio Germano che ci lascia scivolare nel suo delirio.
Pensavamo di rilassarci davanti a un film sui malesseri altrui, ci ritroviamo davanti alla radiografia di un trauma che potrebbe riguardarci. In Favolacce stavamo dalla parte dei ragazzini, avevamo gioco facile a detestare i loro genitori. Qui in America Latina (un continente nero, gelido, vetrificato) abbiamo difficoltà a fuggire dal labirinto in cui si muove Massimo, sin troppo simile a quello dove potremmo finire noi, se non ci siamo già dentro.
Elio Germano in America LatinaUna storia vera, di fantasmi
America Latina è dunque un film sulla solitudine e sulla fragilità del maschio, specchio di un paese (o forse solo della sua parte dominante e insieme morente) che fa ormai più pena che rabbia. I D'Innocenzo entrano con decisione in questo cono d'ombra, sembrano conoscere molto bene le fasi del crollo di molti maschi adulti, ne raccontano la crisi attraverso una storia vera, di fantasmi. Elio Germano (non solo nei film dei D'Innocenzo, ricordo ad esempio un'interpretazione esemplare in Alaska di Claudio Cupellini, altro film congelato sin dal titolo) è l'attore che forse negli ultimi anni sta meglio interpretando questa fragilità, questa solitudine e questo fallimento, da cui spesso scaturisce la violenza. La violenza è ovviamente colpevole, ed era ciò davanti a cui ci metteva Favolacce: la colpevole ferocia degli adulti. Ma cosa succede se alla fragilità togli la violenza e lasci la solitudine? È questo il movimento davvero esemplare di America Latina. Al maschio cui avremmo riservato disprezzo siamo costretti ad andare incontro. Dobbiamo abbracciare il mostro, consolarlo. Siamo ancora capaci di farlo? Quanta pìetas è rimasta in noi? Chi è di conseguenza il vero mostro? "Sarò il tuo specchio", dice Massimo/Elio Germano emergendo dalle profondità verso i nostri occhi spalancati.
America Latina - da sinistra Damiano e Fabio D'InnocenzoI gemelli D'Innocenzo girano con America Latina la loro opera più visionaria e coraggiosa. La colonna sonora è dei Verdena. Il film sarà divisivo. Io li ringrazio per aver avuto la capacità di infilarsi dove pochi hanno il coraggio di andare a guardare. L'America Latina è il continente sotterraneo di cui intuiamo l'esistenza quando un danno irreparabile esplode in superficie, ma dentro cui abbiamo timore di spingerci. Loro l'hanno fatto.