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Sta per arrivare sugli schermi (dal 18 maggio) Alice attraverso lo specchio, nuovo adattamento del secondo e meno noto (perché più fiacco) racconto del reverendo Charles Dodgson, in arte Lewis Carroll: però nonostante gli attori siano Mia Wasikowska, Johnny Depp, Helena Bonham Carter e Anne Hataway, il regista stavolta non è Tim Burton… chi ha detto “meno male”?
L’adattamento che Burton fece del romanzo non fu né tra i suoi film migliori, né fra le trasposizioni più belle che il cinema abbia fatto dello scrittore britannico: è da vedere se James Bobin, il regista che ha preso su di sé il fardello di un simile sequel (e che all’attivo ha soltanto due film sui Muppets) riuscirà a migliorare il brand.
Sta di fatto comunque che la creazione di Carroll è stata, negli anni, una di quelle creature che più ha stimolato la fantasia degli autori di cinema, se non proprio condizionato e influenzato l’immaginario pop del Ventesimo Secolo. In pochi però sanno che lo scrittore era un ventiquattrenne che provava molto più interesse per i bambini che per i suoi coetanei, consuetudine che oggi come allora non verrebbe vista bene. Eppure è proprio questa constatazione, insieme alla fama del personaggio, che giustifica l’esistenza di personaggi doppi, dalla doppia vita, dalla doppia personalità e/o forma fisica. Perché le persone dovrebbero astenersi dal contraddirsi, se è proprio la società che li domina che lo fa?
Insomma, materiale e personaggi magmatici, ribollenti, stratificati, distillati nei due libri (Alice’s Adventure in Wonderland, e Through the Looking-Glass, and What Alice Found There) da cui Burton attinse a piene mani, anche perché la trama era solo un pretesto per affastellare fantasmagorie e bizzarre sequenze di eventi: e forse il bisogno di dare coerenza a materiale tanto volutamente caotico ha fatto si che il regista di Ed Wood si sia sforzato di scartare il suo solito andamento ondivago e onirico -che ben si sposava alla psichedelia insita nella materia- a favore di una narrazione più canonica. Senza dimenticare che produsse la Disney, Alice in Wonderland nonostante le numerosissime intuizioni visive risentiva senza dubbio della perdita di ispirazione che affligge(va?) Burton da un bel po’, per poi perdersi definitivamente nel momento in cui il film si trasformava in un percorso verso il conformismo. Si dice che Burton sia stato anche frenato dal peso delle responsabilità, tagliando pesantemente in fase di montaggio del materiale già di per sé senza slancio; ma purtroppo, anche se la sua impronta fortemente autorale rimane nelle suggestioni, negli scarti laterali della trama, nei dettagli e nei personaggi minori, in ogni caso il suo 14° film rimane a tutt’oggi un’opera fortemente, coscientemente compromissoria.
Quindi diciamolo: hanno fatto -quasi- tutti di meglio.
Dal 1903, quando Cecil M. Hepworth e Percy Snow firmarono il cortometraggio omonimo muto (che, come sempre accade, contestualizzato ma neanche poi tanto ha degli effetti speciali strabilianti, da magico artigianato, e scene altamente suggestive); passando dal lungometraggio, sempre muto, del 1915 diretto da W. W. Young e graziato dall’interpretazione di Charlotte Henry; e arrivando alla fine al cartone animato del 1951. Il capolavoro, finora. Perché i registi Geronimi, Luske e Jackson, insieme a Walt Disney, ammodernarono, personalizzarono e affilarono la già ambigua storia per bambini, creando un’opera a sé stante rispetto a tutto il resto, anche e soprattutto rispetto al libro, perché compendiata da un sostrato profondo di critica sociale e allusione, sapientemente nascosto ad un pubblico più giovane. Un’opera insospettabilmente provocatoria, subliminale, con una dimensione misterica e maledetta facilitata dall’uso della forma animata, più espositiva ed esplicita, e una componente allucinogena divenuta addirittura proverbiale.
Alla luce di tutto questo bagaglio culturale e visivo, è ancora più evidente quanto l’impresa di Bobin sia improba: l’aspettiamo al varco?