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Si chiude un’edizione mediocre, in modo mediocre. Giuria spaccata, con due ex aequo, dieci film su ventuno a premio, compreso quelli degli abbonati fratelli Dardenne, Tori et Lokita, per cui s’inventano il riconoscimento del 75°, dovessero mai avere un buco in bacheca.
La Palma d’Oro è per Ruben Östlund che porta in crociera oligarchi e influencer con navigazione tragicomica, debiti contratti, e non dichiarati, con Wertmüller e Godard e… Triangle of Sadness è largamente inferiore a Forza maggiore (Turist, 2014) e inferiore a The Square, impalmato nel 2017. Che uno come il non eccelso Östlund abbia vinto due volte Cannes in un lustro – ai sei anni va tolto quello sabbatico per Covid – dice che cosa il festival francese sia diventato. Sì, poco.
Il Grand Prix va ex aequo al dramma adolescenziale Close di Lukas Dhont e alla spy-story Stars at Noon di Claire Denis: il primo, per emotività e fattura, ci sta, il secondo proprio no, l’unica opzione era distinguere quale migliore attrice Margaret Qualley, e invece no. Sul versante interpretativo femminile, vince l’iraniana Zar Amir Ebrahimi, che incarna una giornalista coraggio alle calcagna di un serial killer in Holy Spider di Ali Abbasi: l’attrice vive in Francia da anni, se n’è andata dalla natia Persia dopo lo scandalo per un sex tape.
Analogamente geopolitico il Prix du scénario allo svedese di origini egiziane Tarik Saleh di Boy from Heaven, che stigmatizza l’impasto di religione e politica nell’Egitto di al-Sisi, in cui il regista e sceneggiatore non può tornare.
Non male, dopo l’exploit di Parasite, il doppio alloro alla Corea, destinazione calda dell’audiovisivo francese (e globale): il Prix de la mise en scène a Park Chan-wook, per il thriller mezzo hitchcockiano e mezzo sonnolento Decision to Leave, quello d'interprétation masculine - incomprensibilmente - alla star di Snowpiercer e, appunto, Parasite Song Kang-ho, misericordioso trafficante di bambini in Broker dei giapponese Kore-eda Hirokazu.
E l’Italia? A secchissimo Nostalgia di Mario Martone e Les Amandiers di Valeria Bruni Tedeschi, dobbiamo accontentarci - introdotto da Alba e Alice Rohrawacher e annunciato da Jasmine Trinca - del Premio della giuria (ancora!) ex aequo a Le otto montagne di Charlotte Vandermeersch e Felix van Groeningen, dal libro di Paolo Cognetti e con Alessandro Borghi e Luca Marinelli, e EO del polacco Jerzy Skolimowski, una ragliata d’asino che abbiamo minoritariamente coprodotto.
Però, questo verdetto a pioggia, che trascura ignominiosamente l’unico filmone dei ventuno, Pacifiction di Albert Serra (e lo stratosferico protagonista Benoit Magimel), ci sta: pareggia per modestia la proposta. Nove giurati di cui sette registi tout court o con esperienza dietro la camera hanno partorito un topolino di palmares, ma la Croisette oramai montagna non è più. Cannes of Sadness, merci et à la prochaine fois.