PHOTO
Immaginare la vita: questo potrebbe essere preso come il programma implicito di tutta la filmografia di Kiarostami. Ci sono i cortometraggi patrocinati dal Kanun, che mettono al centro luoghi (la campagna in trasformazione, la periferia povera di una capitale in rapida espansione) e persone (i bambini, i vecchi, le donne): questi soggetti chiedono che le loro vite non siano solo documentate, ma anche in una certa misura narrate a causa della loro marginalità. Ci sono poi i film, come nel caso della trilogia di Koker o di Ta’m e guilass (1997; Il sapore della ciliegia), in cui a essere raccontato non è nemmeno una storia in quanto tale, quanto l’incontro tra il cinema e una vicenda umana: qui il film non testimonia tanto una vita, quanto l’incontro tra il cinema e la vita. Si vede bene, allora, che l’apporto immaginativo si fa più forte, perché ciò che è chiamato vita non si fa più comprendere solo come quella vita. La vita, così come emerge dai film di Kiarostami, è riferita allo stesso tempo alla singola vicenda individuale e a tutto quello che si affaccia oltre ciò che della vita le immagini lasciano vedere e che tuttavia il film lascia immaginare. È solo il cinema – grazie a un montaggio usato spesso per far letteralmente sentire la presenza del fuori campo nell’immagine, come nel finale di Nema-ye Nazdik (1990; Close-Up), di Zendegi va digar hich (1992; E la vita continua), o del Sapore della ciliegia – a poter mettere in comunicazione una vita con tutto ciò che nel mondo le darà occasione di proseguire, in breve con la vita.
Immaginare la vita non significa, di conseguenza, fantasticare un’altra vita. Immaginazione e vita designano due cose affatto differenti da fantasia e realtà. La fantasia è il potere di “fingersi” una realtà diversa da quella che è offerta dai puri dati di fatto. All’immaginazione non manca la capacità di attivare una modalità di pensare le cose altrimenti da come sono, o meglio da come appaiono immediatamente. Non si tratta però di essere trasportati in un “altro mondo”: questo pensare altrimenti non si applica a mondi possibili, ma alle forme di questo mondo. Dico le forme perché, se il cinema di Kiarostami esercita un potere sulle cose, è proprio quello di far emergere le loro forme. E per forma si può intendere niente altro che questo: i punti di apertura nelle cose, in cui queste lasciano intravedere dove si dirigono, dove porteranno la vita. Così nel finale di Zire darakhatan zeyton (1994; Sotto gli ulivi) possiamo chiederci dove l’amore, una delle forme più potenti che la vita può assumere, condurrà le esistenze di Hossein e Tahereh e fino a che punto lo sguardo del cinema potrà accompagnare i due (possibili) amanti. Le forme stanno perciò tra i dati di fatto attuali e visibili e quelli futuri e possibili. È dandole forma attraverso le immagini che il cinema può testimoniare la vita. Dall’ottica di Kiarostami, in fondo, la vita non si trova – o non si trova eminentemente – che nell’intervallo tra le immagini; e con essa in questo “tra” si trovano anche il cinema e l’immaginazione.
Abbas KiarostamiIn questo senso si possono intendere le parole pronunciate da Kiarostami durante un’intervista: "Quando la poesia raggiunge il massimo, e quindi ottiene un potere, in quel momento inizia la sua menzogna" [1]. Il regista riporta qui un pensiero del poeta e filosofo persiano Nezami, che considera, in linea con la tradizione del suo Paese, un maestro di saggezza. Questo concetto va però ricondotto a un preciso contesto culturale – Nezami appartiene al periodo “classico” della letteratura persiana, essendo vissuto tra il xii e il xiii secolo – e a un genere artistico ben definito, la poesia; altrimenti si sarebbe indotti a opporre la realtà (vera) all’opera (bella, ma menzognera) dell’arte e si sarebbe così portati a interpretare quello di Kiarostami come un cinema “di fantasia”. Nel confronto con la poesia il cinema sconta un “di meno”, ma mostra anche un “di più”. Il cinema è meno della poesia, perché solo attraverso le immagini della poesia, che sono fatte di parole, è possibile confrontare il lavoro dell’immaginazione con il linguaggio attraverso cui normalmente esprimiamo i nostri pensieri e ci riferiamo a stati di cose. È a proposito della poesia che si può stabilire in senso stretto una distinzione tra verità e menzogna. Il cinema è però in vantaggio sulla poesia, perché le sue immagini visive, il cui senso dipende dal montaggio e non dal linguaggio, permettono di riferirsi alle cose sospendendo momentaneamente la questione della verità o della menzogna della realtà narrata. Il cinema induce anzi lo spettatore a esplorare fino a che punto la realtà è tale nella misura in cui sono gli uomini a immaginarla, cioè a darle forma.