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Anatomia di una passione. Un giornalista di economia scopre che la futura moglie lo tradisce col suo capo. Cambia vita, si licenzia e, per lavoro, si mette a frequentare una scuola per corteggiatori impavidi. 7 ore per farti innamorare (disponibile dal 20 aprile su Skyprimafila Premiere, Chili, Infinity, Rakuten Tv e Timvision) vede Giampaolo Morelli per la prima volta in una doppia veste: protagonista e regista. “Un po’ di anni fa stavo navigando in Internet, e ho visto una pubblicità curiosa: un signore affermava di poter insegnare agli uomini come rimorchiare le donne. Ho fatto delle ricerche, ho scoperto una moltitudine di forum, una rete internazionale ben radicata. Strategie, tecniche di seduzione: ho deciso di contattare un paio di guru italiani. E ho chiesto loro i risultati, l’efficacia dei consigli che davano. Hanno accettato di farsi microfonare. Li ho seguiti da lontano, nelle librerie, nei bar, ed effettivamente raggiungevano buoni risultati. Ma a colpirmi erano soprattutto gli studenti, le classi. Li portavano in giro, li facevano esercitare sul campo. Alcuni avevano intenzioni più frivole, altri avevano proprio dei blocchi, delle difficoltà oggettive nell’approccio con le ragazze. Da qui è nato tutto”, spiega Morelli.
7 ore per farti innamorare è un romanzo scritto da lei, uno spettacolo teatrale, e adesso anche un film.
Siamo partiti dal libro, che a Napoli ha anche avuto un discreto successo, è rimasto primo in classifica per qualche settimana. Aveva già una struttura cinematografica, ma sicuramente quando l’ho scritto non pensavo che lo avrei portato sullo schermo. È una storia complessa per un’opera prima. Affrontare la commedia romantica pura non ti fornisce molti margini di errore. Poi avevo curato anche la versione teatrale, dalla carta eravamo passati al palcoscenico. Però il film ha un respiro, dei tempi diversi, sempre restando fedeli all’originale. Qui la sfida è stata trovare un equilibrio, eliminare quei risvolti da sitcom, troppo facili, un po’ melensi. Spero di esserci riuscito.
Com’è stato essere per la prima volta dietro la macchina da presa?
Da attore, sono sempre stato molto interessato alle dinamiche del set. Non è stata di certo una passeggiata, ho cercato di fare il massimo. Ho avuto la conferma che la regia è un mestiere che richiede grande impegno e grande umiltà. Non hai le luci della ribalta puntate addosso, ma devi far funzionare tutti i reparti, gli ingranaggi. Penso che “guidare” un esordio sia un atto d’amore. Ringrazio tantissimo tutto il cast, anche professionisti più navigati come Vincenzo Salemme, che mi ha regalato un battesimo gioioso.
Proprio il personaggio di Salemme, verso la fine, sostiene che Internet morirà.
(Ride, n. d. r.). Volevo raccontare di un uomo che vede lontano, un visionario. Magari ci sarà davvero un ritorno alle origini, dove i giornali verranno sostituiti dalle comari di paese. Anche se è improbabile, surreale.
Com’è stato dirigere se stesso?
Molto complicato. Ero impegnato a coordinare tutto e tutti, ma poi mi rendevo conto di dover anche andare in scena. Avevo la testa divisa: recitazione, movimenti di macchina… Il cinema mi piace perché è qualcosa di legato alle dinamiche di gruppo. Bisogna mettere da parte gli individualismi. Da ragazzino ero affascinato dai titoli di coda dei blockbuster americani: erano infiniti, era incredibile pensare a quante persone avevano collaborato al progetto.
Adesso il film è disponibile su piattaforma. Come avete preso questa decisione?
Questo è il terzo film in cui lavora con Serena Rossi.