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Che il cinema rumeno ultimo scorso abbia infilato a più riprese la camera nella corruzione patria è asseverato. L’ha fatto con i migliori rappresentanti della sua nouvelle vague, consacrata internazionalmente dalla Palma d’Oro al 60° Festival di Cannes del 2007 di Quattro mesi, tre settimane, due giorni di Cristian Mungiu, cui sintomaticamente la componente medica non era estranea. Centrale, due anni prima, s’era rivelata in La morte del signor Lazarescu di Cristi Puiu, giacché l’anziano protagonista doveva tragicamente confrontarsi con l’inefficienza ospedaliera. Stesso humus per Un padre, una figlia (Bacalaureat, 2016) di Cristian Mungiu, in cui la corruttela si trasmetteva come da titolo nelle pressioni di un dottore per aggiustare l’esame della rampolla. Altro alfiere della vague, Corneliu Porumboiu con Police, Adjective (2009) avrebbe inquadrato la surreale burocrazia di una stazione di polizia.
Insomma, c’è del marcio in Romania, e non lo scopriamo oggi, eppure un conto è il realismo, un altro la realtà: se al primo vanno iscritti Mungiu e i suoi fratelli, la seconda spetta ad Alexander Nanau, professione reporter. Pluripremiato. Il suo Collective baratta la verosimiglianza della vague con il fatto, anzi, i fatti di cronaca: è un docuthriller desunto dalla realtà, sia nella documentazione fattuale che nella progressione drammatica, dunque nello status e nel genere.
C’è una marca testuale per accedervi, un’indicazione d’uso che segnala uno iato dirimente, ontologico, tra questo e quei “precedenti”, e subito, nell’incipit. È il 30 ottobre del 2015, sul palco del Colectiv, rinomato club di Bucarest, sta suonando il gruppo metalcore Goodbye to Gravity che presenta il nuovo album Mantras of War. Il frontman Andrei Găluț ha appena finito di urlare “Fanculo la vostra sporca corruzione! Esiste fin dalla nostra nascita...”, ma qualcosa non va, “qualcosa là – osserva allarmato ma neanche troppo - ha preso fuoco” e, precisa Găluț, “non fa parte dello spettacolo”. Ecco la differenza, ecco la realtà irrompere nel cinema, ecco la tragedia nel suo farsi storico e anti-spettacolare: Găluț, con ustioni sul 45% del corpo, sarà l’unico membro della band a salvarsi, gli altri quattro periranno. Il famigerato incendio del Colectiv: sessantaquattro morti, tra cui la studentessa italiana Tullia Ciotola, e centocinquantatré feriti.
Un’onda popolare travolge la politica: alla gogna la corruzione, ché il Club Colectiv operava indisturbato nella completa inosservanza delle misure di sicurezza, le manifestazioni di piazza portano il 4 novembre alle dimissioni del primo ministro Victor Ponta.
Di quelle sessantaquattro vittime ventisette nel rogo, altre trentasette successive, e si debbono all’inadeguatezza delle strutture ospedaliere e, cuore dello scandalo, alle infezioni batteriche che falciano i pazienti gravemente ustionati: infezioni dovute principalmente all’utilizzo di disinfettanti criminosamente diluiti fino a perdere qualsiasi efficacia. Qui prende la penna il giornalista del quotidiano sportivo Gazeta Sporturilor Cătălin Tolontan e la punta contro il ministro della Salute Nicolae Bănicioiu, che asserisce gli ospedali romeni siano preparati ad affrontare le emergenze e al livello di quelli tedeschi.
Se i test governativi accordano ai disinfettanti in uso un’efficacia del 95%, le analisi indipendenti di Tolontan rivelano l’operato fraudolento del fornitore Hexi Pharma e del titolare Dan Condrea: liquidi antibatterici iperdiluiti alla fonte e nuovamente a monte nei singoli ospedali. L’affare s’ingrossa, Condrea si suicida in circostanze non del tutto chiare, e al posto del sopraggiunto ministro della Sanità Patriciu Andrei Achimaș Cadariu arriva il giovane Vlad Voiculescu, già attivista per i diritti dei pazienti: l’operazione trasparenza, seguita per mesi e con accesso illimitato da Nanau, scoperchia un quadro aberrante, in cui la corruzione è sistemica, il giuramento di Ippocrate questo sconosciuto. C’è del marcio, già, e pure dei vermi che brulicano nell’orecchio di un paziente.