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La signora della porta accanto (Webphoto)
«À louer», un semplice, banale affittasi, è il dettaglio che la macchina da presa inquadra all’inizio e alla fine della tragica vicenda di Bernard e Mathilde, “la signora della porta accanto”. Anche la storia d’amore più intensa e terribile, quella che non lascia scampo ai protagonisti, ben definita da Madame Jouve, che la narra guardando in macchina, con una sorta di epitaffio che recita «né con te, né senza di te», anche la storia estrema ha una sua origine nel caso.
Se Philippe Bauchard e sua moglie non avessero deciso di affittare quella casa un po’ isolata nei pressi di Grenoble, vicino alla quale vive la famiglia Coudray, forse si sarebbe evitata la tragedia. Se un solerte garzone di lavanderia non si premurasse di consegnare alla moglie di Pierre Lachenay, lo scrittore protagonista di La calda amante, la ricevuta di un rullino che egli aveva mandato a sviluppare, forse si sarebbe andati verso una riconciliazione della coppia, una ripresa, che già si intuiva all’orizzonte, dei rapporti matrimoniali soltanto incrinati da un’avventura, un tran tran familiare invece di quella terribile sparatoria.
E se – vicenda ancor più assurda – il colpo partito da quell’appartamento, in cui i cinque mascalzoni giocavano con un fucile, non fosse stato deviato in basso, verso la coppia di sposi usciti proprio in quel fatale momento dalla chiesa, forse Julie avrebbe vissuto fino alla fine la dolcezza di una grande storia d’amore, appena coronata da un felicissimo matrimonio. E non sarebbe diventata La sposa in nero, la terribile vendicatrice capace di trovare ed eliminare, con i più ingegnosi artifici, tutti e cinque i responsabili della morte del suo sposo.
Il caso sembra, dunque, un elemento ricorrente e insostituibile delle storie raccontate da Truffaut, un crocevia nel suo universo narrativo, l’oggetto di una profonda riflessione. Ma il caso non è un concetto a cui si può fare un frettoloso riferimento e richiede un’attenta osservazione.
François Truffaut (Webphoto)
C’è un’espressione che è entrata prepotentemente nel nostro linguaggio comune, introdotta soprattutto dalla cronaca, dal giornalismo quando si trova ad affrontare il racconto di vicende luttuose: l’espressione, ambigua ma utile per procedere nell’analisi delle rappresentazioni truffautiane, è “tragica fatalità”. Ma la formula “tragica fatalità”, quella che per esempio fa coincidere la traiettoria del proiettile sparato dal terrazzo con il percorso della coppia di sposi fuori dalla chiesa, ha assunto un senso un po’ vago, prossimo all’idea di caso, di casualità sia pure resa grave dal richiamo alla tragedia dell’aggettivo.
Eppure basterebbe un minimo di attenzione etimologica per ricordare che la “fatalità” ha a che fare con il fato e che fato è un termine impegnativo, di cui non è certo qui il caso di riprendere le origini e gli sviluppi filosofici, ma che designa una dimensione ben lontana, opposta a quella della semplice casualità. Il fato è una forza che interviene nella vita degli uomini, costringendoli su un certo predeterminato percorso, dall’esterno, come dall’alto, una presenza inevitabile, ineluttabile, di fronte alla quale non hanno senso i “se”.
Il fato appartiene all’ordine della necessità, quella che il pensiero greco definiva anànke, e che una lunga serie di analisi e di riflessioni, dovute soprattutto a Jean-Pierre Vernant, ha visto come possibile, dialettica contrapposizione alla categoria della libertà e della responsabilità individuale. Si tratta di una dimensione molto più complessa e delicata di quella a cui fa riferimento la cosiddetta fatalità, di una dimensione che si esprime nella forma del tragico, della tragedia. La digressione può apparire fuori luogo e fuori dalla strada maestra della nostra lettura dell’opera di un regista.
Ma l’universo narrativo di Truffaut si presenta come il luogo in cui queste dicotomie, le sfumature di senso tra fatalità e fato, le contrapposizioni tra caso e necessità, i conflitti tra destino e libertà trovano un radicamento forte, una stratificazione complessa e un ribaltamento sorprendente tra le apparenze superficiali e le letture profonde. Solo in apparenza, infatti, a governare le storie e la vita è il caso, la casualità di un affittasi, di una vicinanza fortuita e fatale, la casualità di una ricevuta rimasta nella tasca di una giacca.
La sposa in nero (Webphoto)
Viste nel loro insieme, nelle loro ricorrenze e in profondità, le vicende, le vite degli uomini e delle donne messe in scena da Truffaut si inseriscono in un percorso in cui – non è un modo di dire – nulla è lasciato al caso, tracciato da presenze a cui invano si può tentare di opporsi ma che in realtà si possono soltanto assecondare e che, dietro ad apparenze di casualità, si dispongono in forme di geometrica precisione: è quella geometria delle passioni a cui allude il titolo di questo volume.
Potrebbe sembrare persino assurda questa ipotesi nella visione del mondo di un autore che nella sua prima opera, il film che l’ha fatto conoscere e amare dal pubblico e dalla critica, un film-manifesto, un film-simbolo, ha narrato una storia di ribellione e di liberazione, ha celebrato la spontaneità e la libertà di scelta.
Ma accanto ad Antoine Doinel e al suo percorso di affermazione della propria indipendenza e della volontà, il cinema di Truffaut è popolato da immagini di dipendenza, da vite segnate da un destino, da una necessità, da un percorso obbligato che alcuni scelgono e vogliono fortemente ma rispetto al quale, in realtà, non vi sono margini di scelta, da derive al termine delle quali non vi può essere altro che la morte.
Sono storie che non solo hanno la morte come inevitabile conclusione, come si addice alla forma tragica, ma che mettono in scena, secondo un’acutissima definizione di Alberto Barbera, il lento, progressivo, inarrestabile divenire morte della vita. Le passioni, le pulsioni vitali coincidono in queste costruzioni geometriche di elementi analoghi e opposti con la distruzione, eros con thanatos.
In Truffaut è il motivo, l’origine della propria distruzione, una forza mortifera, thanatos che nasce insieme con eros e che non può esserne separato. Certo sono molto variati i toni con cui vengono affrontate e descritte queste parabole fatali.
L'uomo che amava le donne (Webphoto)
C’è il tono burlesco, parodistico nelle sue esagerazioni, nelle iperboli che caratterizzano la vicenda di Bertrand Morane, “l’uomo che amava le donne”, che comincia dal suo bizzarro funerale, affollato di sole donne e che rievoca, anche attraverso la scrittura del romanzo autobiografico, l’educazione e le infinite avventure sentimentali fino al rocambolesco, farsesco incidente causato dalla sua curiosità per l’altro sesso che gli costa la vita. Una storia in cui la vitalità delle pulsioni erotiche diffusa dalla presenza del protagonista si stempera in un’atmosfera di malinconia dettata dall’inconcludenza, dalla vanità della sua ricerca che già racchiude e anticipa l’inevitabile destino luttuoso.
C’è il tono autenticamente tragico, quello che appartiene a una delle pochissime vere tragedie messe in scena dal cinema contemporaneo, La signora della porta accanto, con quella sua serie di “coincidenze”, di opposizioni e di rispecchiamenti geometrici: le due case che si guardano, poste l’una di fronte all’altra; Philippe e Bernard tra cui Mathilde si divide come sono divisi dalla presenza, nelle loro professioni, di due elementi opposti, l’aria e l’acqua; il presente e il passato, l’oggi che manifesta l’illusoria possibilità di un rapporto diverso tra i due amanti ma che, in realtà, non fa che riproporre l’eterno ritorno di quella che è stata la loro storia di ieri, la morte violenta di due adulti già contenuta nel loro amore di giovani.
[estratto da Giorgio Simonelli, François Truffaut. La geometria delle passioni (Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, 2007)]