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François Truffaut in La camera verde (Webphoto)
la prima puntata del nostro speciale: Infanzia e memorie
Oltre a quella di regista autobiografico, attento alle dinamiche dell’infanzia, un’altra immagine ha accompagnato Truffaut in gran parte della sua carriera e soprattutto nel suo culto, quella di autore metalinguistico. Si tratta di un’interpretazione già motivata da molti accenni presenti in vari film del primo periodo e che trova uno sviluppo esplosivo a partire da quella summa di tòpoi e di rimandi intertestuali cinematografici non a caso intitolata, nell’originale, La nuit américaine (Effetto notte).
Ma questa lettura che rischia talvolta di perdersi in sterili involuzioni cinefile, può anche trovare interessanti approfondimenti se la si osserva in un quadro più ampio, non solo come intreccio citazionistico, ma come uno sguardo che il cinema di Truffaut lancia, come si suol dire, a 360 gradi, su tutte le forme di scrittura e di rappresentazione.
Non solo il cinema, dunque, ma anche la musica, il teatro, la letteratura, ogni tipo di messa in scena o di messa in forma ha trovato spazio nel cinema di Truffaut ed è stato descritto nei suoi rapporti complessi e ambigui con la realtà della vita.
Appaiono spesso, nei film, i luoghi e gli strumenti della produzione musicale: le sale da concerto e i music hall, il pianoforte che appartiene alla vita di tanti personaggi, il violino di Christine Narbonne, il banjo di Camille (Mica scema la ragazza!), ma anche le partiture musicali, i dischi, veri protagonisti di Antoine e Colette, dalla costruzione alla vendita, fino alle tecnologie più complesse come la pista ottica del film, che appare sullo schermo insieme con i titoli di testa di Effetto notte.
Effetto notte (Webphoto)
Entrano nel gioco e si confondono con le esistenze dei protagonisti delle storie truffautiane le figure e le situazioni rappresentate dalla tradizione musicale, da quella colta e da quella popolare e anche da quella più marcatamente commerciale: i bambini che si annoiano la domenica cantati da Trenet si mescolano a quelli di Thiers; Bertrand Moran, “l’uomo che amava le donne”, si comporta non come un dongiovanni ma come il don Giovanni di Mozart parafrasando talvolta i versi di Da Ponte; Mathilde Bauchard, “la signora della porta accanto”, quando è ricoverata in clinica per la sua forte depressione non fa nulla se non ascoltare la radio, ma non per tenersi informata, come crede scioccamente Bernard, unicamente per ascoltare le canzoni «perché dicono la verità, più sono stupide, più sono vere. Dicono “non devi lasciarmi, senza di te in me non c’è vita, senza di te io sono una casa vuota, lascia che io divenga l’ombra della tua ombra” oppure “senza amore io non sono niente”».
Ma, ancor più della musica, è l’esperienza letteraria, soprattutto quella di tipo narrativo, ad avere ampia rappresentazione nel cinema di Truffaut. Alla scelta non è certamente estranea la stessa formazione del regista, il suo rapporto intenso con la lettura, alternativo all’insipienza della vita scolastica e all’assenza di dialogo nella vita familiare, un rapporto da autodidatta bulimico che lo porta a leggere tutti i classici della collezione Fayard ma non gli impedisce di crearsi un gusto personale, un’identificazione con alcuni autori e alcuni personaggi – Balzac, Madame Bovary, Proust – e di fare alcune scoperte tra i contemporanei come Genet.
È evidente che Truffaut è stato per tutta la vita “l’uomo che amava i libri”, ma ciò che veramente colpisce, nei suoi film, non è tanto l’ispirazione letteraria, quanto l’originalità e la varietà delle rappresentazioni della presenza della letteratura nella vita degli uomini. È l’aspetto concreto, materiale della letteratura, quello che negli studi tradizionali è sempre rimasto nascosto e che solo la nuova storia e le nuove tendenze culturologiche hanno posto al centro dell’attenzione, che trova spazio nei film di Truffaut.
Essi ci parlano delle forme letterarie e le mettono in scena: la forma diaristica che il dottor Itard dà alla sua esperienza pedagogica, la forma autobiografica del romanzo di Doinel, Le insalate dell’amore, che si manifesta in L’amore fugge, quella singolare forma di letteratura che è il necrologio a cui dedica tutta la sua passione e la sua vita Julien Davenne, il protagonista di La camera verde, interpretato dallo stesso Truffaut.
Ma accanto alle forme appaiono in tutta la loro concretezza i materiali della letteratura: non solo l’oggetto-libro e il suo affascinante contenitore, la libreria, ma tutto il processo che trasforma un’idea in un prodotto cartaceo. La scrittura manuale, la dattilografia, la composizione tipografica, l’edizione e la distribuzione sono esperienze che il cinema truffautiano ama rappresentare attraverso personaggi e situazioni pregnanti.
Non drammatizziamo... è solo questione di corna (Webphoto)
C’è la dattilografa che si rifiuta di continuare la ribattitura del testo di Bertrand, “l’uomo che amava le donne”, per il suo contenuto scabroso, mettendone in forse la conclusione e la “editor” che, invece, vuole assolutamente pubblicarlo subito, impedendo all’autore le ultime correzioni e trovando il titolo giusto. E poi c’è la storia del libro di Doinel che di film in film, da Non drammatizziamo… è solo questione di corna a L’amore fugge, si trasforma sotto i nostri occhi da idea in scrittura, fino a diventare quel volume intitolato Le insalate dell’amore che Colette acquista in libreria e legge in treno e il cui contenuto è rappresentato da ciò che era apparso in I quattrocento colpi, in Antoine e Colette.
Immagini mentali che diventano parole e parole scritte che si trasformano in immagini cinematografiche, come quelle che si trovano nel pacco di libri che Ferrand, il regista di Effetto notte, riceve sul set: sono volumi dedicati ai grandi registi, Bresson, Dreyer, Lubitsch, Bergman, Godard, letture che ispireranno il cinema di Ferrand, parole destinate a diventare cinema.
[estratto da Giorgio Simonelli, François Truffaut. La geometria delle passioni (Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, 2007)]