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Che in ogni opera d’autore ci sia una componente autobiografica, è cosa nota: «Madame Bovary c’est moi», ha spiegato chiaramente Flaubert. E nella storia del cinema non mancano certo esempi famosi di presenze autobiografiche, basta pensare a Fellini e ai suoi “amarcord”. Ma nessun altro regista ha spinto la dimensione autobiografica ai limiti toccati da Truffaut, sia per la densità dei riferimenti, sia per l’originale complessità della ricostruzione cinematografica del proprio vissuto.
Sono ben cinque, infatti, i film – quattro lungometraggi e un episodio di un’opera di cinque registi – che raccontano le tappe della vita di quell’alter ego del regista che egli ha chiamato Antoine Doinel e costituiscono un caso di serialità inedita, quasi contraddittoria all’interno delle logiche e delle aspettative del cinema d’autore. Seguiamoli nell’ordine cronologico della loro realizzazione che coincide con quello della biografia di Antoine.
Il primo è il mitico I quattrocento colpi, un’opera di cui molto si è già parlato nel precedente capitolo, il film che segna l’esordio del regista nel lungometraggio, dopo l’esperienza di tre corti – Une visite, Les Mistons e Histoire d’eau –, un film di grandissimo impatto fin dalla sua presentazione al festival di Cannes e poi nella sua circolazione nelle sale francesi ed europee, la scoperta e la contemporanea consacrazione di un grande autore, l’inizio di una nuova era del cinema, quella della nouvelle vague. Forse travolti da questi validi motivi di entusiasmo, talvolta ci si dimentica di chiarire le cose più semplici.
I quattrocento colpi (Webphoto)
L’espressione che dà il titolo al film, priva di senso in italiano, è la traduzione letterale e impropria di un modo di dire francese: faire le 400 coups equivale a “fare il diavolo a quattro”, “combinarla grossa”. È certo quanto accade al tredicenne Antoine Doinel che vive molte delle disavventure e dei dolori che abbiamo visto segnare l’infanzia e l’adolescenza del regista. In una Parigi piatta e grigia, priva di quegli slanci dell’istinto di sopravvivenza tipici del periodo dell’occupazione, che sarà lo sfondo di un’altra storia molto diversa, quella di L’ultimo metrò, Antoine soffre la durezza degli insegnanti e le tensioni familiari, la distrazione della madre, per cui sente una sorta di ammirazione, e l’assenza del padre.
L’alternativa a queste tristezze è rappresentata, oltre che dall’amicizia con René, dalla fuga, da una deriva che lo porta a marinare la scuola, a girovagare per la città rubando per sfamarsi, e dall’amore per la letteratura. Ma le incomprensioni e i contrasti si fanno sempre più aspri, fino all’abbandono da parte dei genitori e all’esperienza traumatica e dolorosa del riformatorio, dal quale Antoine prova a fuggire raggiungendo il mare.
Oltre a un clima generale, un’atmosfera, un diffuso sentimento di ingiustizia, di disagio e di rabbia che accomunano la vita di Doinel a quella di Truffaut, oltre a tutto ciò che è racchiuso nella definizione di un’infanzia infelice (quella in cui l’ironia del regista sconsigliava, comunque, di crogiolarsi, evitando di farla pagare a tutti), oltre a questo, il film contiene riferimenti autobiografici molto precisi nei personaggi e negli episodi, dalla figura della madre affascinante e infedele, al furto della macchina da scrivere, alla denuncia alle autorità da parte del padre, all’esperienza del riformatorio che Truffaut conobbe a Villejuif.
Ma il grande valore del film consiste nella sua capacità di unire questa concretezza del vissuto personale con una dimensione astratta, assoluta, del discorso sull’adolescenza. Antoine è certamente François, ma è, insieme, l’Edmund rosselliniano di Germania anno zero (1947), il Michele di Europa 51 (1952) e i piccoli ribelli di Zéro de conduite (1933; Zero in condotta) di Jean Vigo. Antoine è il simbolo di una “condizione umana” generale, di una dimensione che è insieme anagrafica ed esistenziale e che presenta in sé una natura drammatica. Ad avvalorare questa lettura simbolica del film ci sono molti elementi interni al testo e circostanti.
I quattrocento colpi (Webphoto)
C’è il rapporto costante in tutto il film tra l’inquadratura e il soggetto Antoine-Léaud, l’identificazione dello sguardo dello spettatore con lo sguardo del ragazzo: una questione di punto di vista che non è solo tecnica, linguistica, ma – come sostenevano i teorici nouvellevaguisti – «una questione di morale». Ma la macchina da presa va oltre questa scelta, più in profondità: come osserva con lirico acume Paola Malanga nella sua monografia, pedina instancabilmente il suo eroe, come per proteggerlo, lo isola e lo rende assoluto.
C’è un’inquadratura che completa e racchiude in sé il senso di questo processo di astrazione: è una delle inquadrature più celebri e intense della storia del cinema, l’ultima di I quattrocento colpi, quando Antoine nella sua corsa verso il mare volge il suo sguardo indietro verso la macchina da presa e imprime il suo primo piano in un immortale frame stop. Ma anche fuori dal film si trovano ampie e importanti conferme di questa linea di lettura.
[estratto da Giorgio Simonelli, François Truffaut. La geometria delle passioni (Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, 2007)]