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Jeanne Moreau in Jules e Jim
Ispirata all’omonimo romanzo di Anna Banti e curata da Giulia Caminito, Viola Lo Moro e Nadia Terranova, la nuova collana di Giulio Perrone Editore, Mosche d’oro, chiede a una serie di autrici italiane di raccontare quale figura femminile è stata cruciale nella loro formazione artistica e personale, mescolando così le riflessioni private alla ricostruzione biografica.
A inaugurare questa serie letteraria (dedicata alle donne che hanno saputo essere indubitabilmente preziose e, al tempo stesso, fastidiosamente moleste nell’ottica delle rispettive epoche in cui hanno vissuto) è il volume di Lisa Ginzburg Jeanne Moreau. Il rigore della luce (pagg. 108, € 15,00), cronaca di un rapporto iniziato con una proiezione pomeridiana di Jules e Jim al Filmstudio di Trastevere.
Per l’autrice la visione del film di François Truffaut si tramuta in una duplice folgorazione: verso la protagonista Catherine (“Una creatura capricciosa senza però mai risultare noiosa; volubile ma sempre sincera; enormemente presa da sé, eppure attentissima agli altri”) e verso colei che la interpreta, la quale non è “soltanto una grande attrice e una donna di assoluta bellezza e malia” ma anche, “e sempre più lo sarebbe stata, un modello di femminilità da seguire e inseguire”, capace di “brillare in tutto il suo fulgore, come un faro” e di indicare “una strada, un femminile possibile: felice, libero, non ferito o recriminatorio o lamentoso”.


In un libro incentrato su colei che, citando Luis Buñuel, “non recita, esiste” è inevitabile tanto raccontarne la vita (specialmente alla luce del gioco di specchi che, nel caso della Moreau, si innesta fra pubblico e privato, anche alla luce delle sue celebri e chiacchieratissime relazioni con registi e colleghi) quanto scandire le tappe di una carriera densa di pellicole e collaborazioni illustri (oltre a quello con Truffaut, non si possono certo tralasciare i sodalizi con Louis Malle, Orson Welles, Michelangelo Antonioni, Joseph Losey e Rainer Werner Fassbinder). Ma quello che interessa davvero alla Ginzburg non è scrivere una biografia dell’attrice, né di rimarcare l’importanza della Moreau nell’ambito della settima arte o, più semplicemente, dell’intera cultura francese.
Ciò che le preme è cercare di spiegare al lettore cosa abbia rappresentato (e continui a rappresentare) Jeanne per un certo tipo di pubblico femminile, non necessariamente d’estrazione intellettuale, ma, che, dopo averla vista sullo schermo, non può fare a meno di ammirarne quella “fiducia in sé assoluta, che la spinge e la sostiene, senza mai tradirla, per tutta la vita. Fiducia che coincide con desiderio e ferrea volontà di riuscire, essere autentica, sempre aderente a quel che le dettano la sua testa e la sua natura, mai per un momento fuori asse”.
E se nel 1965 su Vogue l’amica Marguerite Duras afferma: “Ammirata come nessun’altra, attorniata come nessun’altra, Jeanne Moreau pone il problema della solitudine della donna”, l’attrice tramuta la necessità di trascorrere tempo da sola (bisogno che aumenterà progressivamente con l’avanzare degli anni) in una sorta di “patto di autoascolto, di fedeltà a sé, e a sé sola”, che la rende insaisissable (inafferrabile) per tutti gli altri, nel quotidiano e sul set. Difatti, per quanto il suo volto campeggi in centinaia di inquadrature, posati artistici e scatti rubati, registi e fotografi ammettono di non essere mai riusciti a immortalarla davvero, ossia a catturarne l’autentica malia. Lei stessa, del resto, diceva di non riconoscersi in alcuna immagine che la ritragga ed è in quest’aura di mistero inviolabile che divampa (e persiste) il suo fascino.

