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C'era una volta in America (Webphoto)
Ci sono momenti nella storia in cui tutto sembra congiungersi per creare un immaginario collettivo destinato a resistere nel tempo. Chi era adolescente o ventenne nell’Italia degli anni Ottanta del secolo scorso, per esempio, è segnato da un anno: il 1982. È l’anno della tragedia della Ferrari di Gilles Villeneuve, dell’incidente mortale di Grace Kelly e del trionfo Mundial della Nazionale di Paolo Rossi. L’anno di Blade Runner, Rambo, E.T. e Rocky III. L’anno in cui esce il Commodore 64, che catapulta nell’era digitale i ragazzi degli anni Ottanta, guardati con disprezzo dalla generazione “impegnata” che ha manifestato e sparato per tutto il decennio precedente.
Come definire i giovani di allora? Senza pretese di creare categorie sociologiche, potremmo chiamarli la “Generazione Noodles”. Perché a segnarli per sempre ci sono senz’altro anche C’era una volta in America e il suo protagonista, a cui Robert De Niro diede molto più di un volto. Il film arrivò nelle sale nel 1984, ma è figlio dell’anno che cambiò tutto.
Alle 9:30 del mattino del 14 giugno 1982, un mese dopo la morte di Villeneuve e un mese prima del trionfo della Nazionale di Bearzot, Sergio Leone entrò al Teatro della Cometa a Roma e cominciò le riprese del suo capolavoro. Da quando aveva cominciato a pensarlo erano trascorsi 16 anni, il film era diventato la grande ossessione della sua vita.
Ci voleva un ragazzo della “Generazione Noodles” per raccontare un’impresa come quella dell’America di Leone. Qualcuno ossessionato dal film al punto da dedicare a sua volta oltre un decennio a raccogliere tutte le informazioni che permettessero di ricostruire una delle avventure più incredibili della storia del cinema. Piero Negri Scaglione è riuscito nell’impresa e ha portato in libreria con Einaudi Che hai fatto in tutti questi anni, un titolo che può riferirsi sia alla battuta più celebre del film (risposta di Noodles: “Sono andato a letto presto”), sia al lavoro di inchiesta dell’autore.
Del resto, C’era una volta in America è dominato dal tempo e dalla complessità. Si resta sconcertati scoprendo nelle 248 pagine del libro la quantità di anni perduti a cercare la giusta formula per dare corpo al sogno di trasformare in un film il libro Mano Armata del gangster ebreo newyorchese Harry Grey. Una prima sceneggiatura di Norman Mailer fu ritenuta pessima, un tentativo di coinvolgere Leonardo Sciascia andò a vuoto. Per trovare il filo di un racconto che avrebbe richiesto quattro ore di proiezione per dipanarsi, fu necessario creare un dream team nel quale il regista coinvolse il duo Benvenuti-De Bernardi insieme a Enrico Medioli, Franco Arcalli e Franco Ferrini. Il tutto muovendosi di pari passo con la composizione dell’indimenticabile colonna sonora di Ennio Morricone.
Ancora più complesso è seguire la caccia ai soldi che permisero di mettere in piedi un film che continuava a sfondare ogni budget: alla fine il portafoglio che si aprì fu quello di Arnon Milchan.
Negri Scaglione ha parlato con tutti e da ciascuno ha raccolto un pezzo del racconto che svela la complessità di quello che riuscì a fare Leone. C’è una sequenza che più di ogni altra testimonia la folle logistica dell’America e nello stesso tempo la capacità visionaria del regista di trasformare in grande cinema il suo sogno. È quella della sera sciagurata di Noodles e Deborah, iniziata con una cena da fiaba e finita con uno stupro in auto.
C'era una volta in America © TITANUS (Webphoto)odici minuti e mezzo che hanno lasciato il segno nella “Generazione Noodles”. Per realizzarla, le riprese sono partite da Montreal (l’uscita dal teatro), sono proseguite all’Excelsior sul Lido di Venezia (il ristorante, la spiaggia), hanno fatto tappa a Cinecittà (la scena della violenza) e si sono concluse tra le ville e la spiaggia di Spring Lake (New Jersey), dove Noodles-De Niro si ritrova solo all’alba dopo aver abusato della ventiduenne Elizabeth McGovern. Un giro del mondo per realizzare 12 minuti di racconto.
“Con Sergio – ha raccontato De Niro a Negri Scaglione – trovai un metodo di lavoro nuovo, che non avevo mai sperimentato. A volte succedeva che prima del ciak gli dicessi: fammi vedere come vedi il mio personaggio in questa scena. Mi sembrava interessante vedere cosa aveva in mente, per poi rifare a modo mio ciò che lui mi aveva mostrato. Perché Sergio sapeva cosa voleva, era in grado di interpretarlo per me e io potevo seguirlo”.
Che C’era una volta in America fosse un film senza eguali lo si sapeva da quando uscì, stroncato e tagliato negli Usa, poi restaurato e restituito al suo splendore. Ma la ricchezza di aneddoti e vicende umane che Negri Scaglione ricostruisce va oltre la mitologia nata in questi decenni e apre altre mille piste interpretative. Ognuno resterà con i propri interrogativi. È davvero Max quello dietro al camion della spazzatura? Il sorriso enigmatico di Noodles nell’ultima scena significa che è stato tutto un sogno?
Quella che Leone ci ha lasciato in eredità, scrive Negri Scaglione, è “un’avventura dello spirito che può essere certamente definita proustiana, ma è anche detection, indagine poliziesca, quest cavalleresca. Epica. C’è in ballo il destino di un intero paese in questa storia, anzi, qualcosa di più, una comunità dello spirito, l’America, che è ben più vasta di una nazione con i suoi confini, la bandiera e il passaporto. È l’America che tutti abbiamo immaginato e alcuni sognato, della quale l’eroe (o antieroe), la sua massima espressione, è il gangster, che ci piaccia o no. Il gangster è, letteralmente, tutti noi”.