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Quando si parla di George A. Romero viene subito da pensare ai morti viventi. Allo stesso modo, quando si tratta di morti viventi, il pensiero non può non andare a Romero. È un legame indissolubile costruitosi nel corso di una carriera lunga quasi mezzo secolo. Di certo il regista originario di Pittsburgh deve la sua notorietà a queste creature, ma se oggi la sua figura di cineasta è diventata mito in tutto il mondo, anche al di fuori del genere horror, lo si deve soprattutto alla cifra stilistica del suo cinema, amalgama perfetta di pensieri e immagini coerenti.
I suoi lavori, mai scontati, hanno sempre qualcosa da (ri)dire sulla realtà che ci circonda. Romero utilizza il genere per raccontare l’evoluzione socio-politica degli Stati Uniti. Non a caso, il release della sua prima pellicola, La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead), è datato 1968, un anno chiave per la storia americana e mondiale. L’incredibile quanto inaspettato riscontro positivo del film ha dato il via a una carriera colma di successi che oggi vanta l’affetto e la stima di milioni di cinefili, partendo dagli adolescenti e arrivando ai più anziani, coprendo almeno tre generazioni di appassionati del genere e non solo.
Il fenomeno zombi scatenato da Romero ha influenzato la cultura pop degli ultimi quaranta anni. E se il “boom Z” del nuovo millennio sembra non avere fine lo si deve solamente a lui, uno straordinario regista, sceneggiatore e montatore, ma anche e soprattutto un uomo umile e dalla facile autoironia, che nei giorni scorsi è volato in Italia per ritirare il Premio alla Carriera riservatogli dal Lucca Film Festival e Europa Cinema 2016.
Lei è il padre dello zombi moderno, il mangiatore di carne che si riproduce mordendo le sue vittime e contagiandole. Creatura lontana dal mito caraibico legato alla tradizione vodou. Qual è stata la sua fonte d’ispirazione?
La mia prima idea era di realizzare un dramma incentrato su due teenagers che crescono in un ambiente difficile. Ma poiché ero alla continua ricerca di finanziamenti, sono stato costretto a virare verso orizzonti più commerciali, finché il mio progetto si è trasformato in La notte dei morti viventi. E anche in questo caso, quando io e il mio amico John Russo abbiamo cominciato a scrivere la sceneggiatura, l’idea del film era un’altra. Di certo, non aveva niente a che fare con gli zombi haitiani e col vodou. Neanche mi veniva in mente di poter chiamare le mie creature ‘zombi’; per me erano ghouls.
Io e John volevamo solo raccontare come, nonostante là fuori stesse accadendo qualcosa di straordinario, le persone non cambiassero la loro mentalità chiusa e i loro pregiudizi. I personaggi del film sono costretti a dividere le mura di una casa per sopravvivere, ma invece di collaborare continuano a scannarsi su chi debba assumere il comando e chi debba restare giù in cantina nascosto o al piano di sopra a combattere.
La notte dei morti viventi (1968)Alla fine è il personaggio interpretato da Duane Jones a prendere in mano la situazione. Siamo alla fine degli anni Sessanta: quanto è mirata la scelta di dare a un afroamericano il ruolo da protagonista? Per niente! In realtà, Duane Jones era il migliore attore che avevamo nel nostro circolo di amici. Né più né meno. Quando lo scelsi per la parte, il discorso della razza non era assolutamente uno dei fattori principali presi in considerazione per il film. Quando poi finimmo le riprese, mi diressi a New York in compagnia del mio amico Russell Streiner (produttore e attore del film nel ruolo di Johnny, ndr); in macchina con noi, la prima pellicola stampata de La notte dei morti viventi. Ricordo che durante il viaggio sentimmo via radio che Martin Luther King era stato assassinato. Bastò uno sguardo reciproco per capire che da allora il film avrebbe assunto anche un importante valore razziale. Con grandi probabilità, quell’omicidio ha contribuito in maniera determinante al successo del film stesso.
La notte dei morti viventi e soprattutto Zombi (Dawn of the Dead, 1978) hanno dato il via a un fenomeno di sfruttamento di queste creature al cinema su scala mondiale, eppure il suo modello di morto vivente si è evoluto senza farsi influenzare dai tanti aggiustamenti apportati dal 1968 in poi.
Per quel che riguarda i miei lavori, non parlerei di evoluzione del morto vivente. Ho sempre mostrato come le creature dei miei film siano in grado di afferrare oggetti e maneggiarli, ma non lo fanno seguendo una logica. Semplicemente, nel loro cervello resta un bagliore di vita, un vago ricordo di quando erano persone e delle azioni che erano soliti compiere. Ne Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985), Bub vedendo un rasoio se lo passa sulla guancia e verso la fine del film ricorda come si usa una pistola. Ne La terra dei morti viventi (Land of the Dead, 2005), Big Daddy afferra una mitragliatrice e in poco tempo impara a sparare. In Zombi poi le creature si dirigono verso un centro commerciale perché come ci dice Stephen: «Per loro questo era un posto molto importante quando erano in vita».
Nella prima trilogia, la figura dello zombi riflette negativamente la società americana. Dopo tanti anni, nel 2005, ha deciso di tornare sul grande schermo con una nuova trilogia. Quali sono state le ragioni dietro la scelta di far parlare nuovamente i Suoi morti viventi e cosa rappresentano questi zombi nel contesto storico attuale?
La mia idea iniziale era di fare un film zombi ogni dieci anni, per raccontare i cambiamenti e gli sviluppi della società. Ma negli anni Novanta mi sono concentrato su altri progetti, senza mai dimenticare però le mie creature. In effetti, già nel 2000 lavoravo allo script de La terra dei morti viventi. Poi c’è stato l’11 settembre e tutto è cambiato. Per un momento nel mondo del cinema la domanda più importante è stata: come comportarsi di fronte a un evento del genere? Poi Hollywood ha avuto la “brillante” idea di investire miliardi di dollari su questa tragedia. Per quanto mi riguarda, ho apportato modifiche al mio progetto in modo da presentarlo coerentemente al pubblico post-9/11.
La terra dei morti viventi (2005)A proposito del suo rapporto con Hollywood, le sue pellicole sono tutte state prodotte indipendentemente. Non c’è altro modo per portare sul grande schermo film di denuncia politico-sociale?
Lavorare indipendentemente è l’unico modo che ho per fare esattamente quello che voglio fare. Mi sono sempre considerato una persona fortunata, perché con il passare degli anni ho avuto modo di costruirmi intorno un gruppo di collaboratori fantastico. Certo, agli inizi della mia carriera ci sono stati momenti difficili. Ero alla continua ricerca di finanziamenti. C’è da dire anche che ero l’unica persona interessata alla materia zombi. Oggi invece i morti viventi sono ovunque ed è diventato praticamente impossibile realizzare piccoli film indipendenti; colpa di gente come Brad Pitt e Greg Nicotero, che hanno “massacrato” il mercato audiovisivo degli zombi, vedi World War Z e The Walking Dead. Ormai tutti i film di genere sono realizzati con budget multimilionari. Se si trova il modo di finanziare il proprio lavoro, questa è la giusta direzione da prendere. Io in tutta la mia carriera ho avuto due sole esperienze con i major studios: Creepshow (1982) è stato distribuito dalla Warner Bros. mentre La terra dei morti viventi dalla Universal Pictures, ma entrambi sono comunque stati prodotti indipendentemente.
Oggi sono davvero numerose le creature che si rifanno al suo modello, differenti l’una dall’altra sotto molti aspetti. Dare una chiara definizione di zombi è diventato un compito estremamente difficile. Lei crede che questa crisi d’identità del morto vivente sia il risultato della crisi della nostra società?
Non credo che le due cose siano relazionate. Almeno non completamente. E questo perché in generale non considero essere zombi la maggior parte delle creature che popolano i nostri schermi, anche se negli stessi film ci si riferisce loro con questo appellativo. Oggi li vediamo muoversi rapidamente, provare sentimenti, parlare. Ma gli zombi non possono correre! Sì, forse quelli di 28 giorni dopo (2002), ma solo perché la causa virale scatenante è un ceppo modificato della rabbia. E comunque la storia non cambia. Citando lo sceriffo McClelland in La notte dei morti viventi: “Sono morti. Non ce la faranno mai”.
The Walking DeadSe ogni morto vivente, almeno di quelli che Romero considera tali, riflette una fetta marcia della nostra società, è possibile acquisire consapevolezza dei nostri errori attraverso un’analisi ben studiata delle specie di zombi esistenti oggi?
(Ride) È un punto di vista interessante che non avevo mai considerato prima. Ma credo sia pura utopia, perché ciascuno di noi descrive uno zombi in base alla propria esperienza personale. Ritorna il discorso appena affrontato e i pareri degli opinionisti in materia sarebbero tutti discordanti, motivo per cui non si arriverebbe mai a qualcosa di concreto.
Inoltre, ormai è raro che un film di genere veicoli messaggi di denuncia politico-sociale. Alle majors non interessa il contenuto morale di una pellicola quanto la sua spettacolarizzazione, perché oggi la stragrande maggioranza del pubblico vuole l’effetto speciale. E dunque l’unica preoccupazione delle grandi case di produzione è investire milioni di dollari su progetti che gliene frutteranno altrettante centinaia.
Perché negli ultimi quindici anni l’interesse del pubblico verso gli zombi è esploso così violentemente?
Sono stati i videogiochi che hanno dato la spinta iniziale già negli anni Novanta, su tutti Resident Evil (1996). Poi, come detto, Hollywood si è accorta del fenomeno e ha iniziato a investirci centinaia di milioni di dollari. Ma sono convinto sia un interesse che nel tempo passerà. Ormai la confusione in materia è tale che si sono perse la vera essenza e la filosofia alla base del fenomeno. È diventata solo una questione di soldi.
Cosa ne pensa dei film e delle serie TV zombi di oggi?
Mi fanno arrabbiare. Prendiamo ad esempio The Walking Dead. Amo la serie a fumetti, così come ho amato la prima stagione del serial, orchestrata alla perfezione da Frank Darabont, che però è stato subito dopo licenziato dalla AMC per la sua volontà di proseguire sull’onda della graphic novel originale. D’altra parte, l’emittente televisiva americana ha scelto di abbandonare la qualità in favore della spettacolarità per continuare a mungere la vacca dei soldi. Il risultato è che oggi questa serie TV è diventata una telenovela.
World War ZGuardando invece a quei registi che hanno realizzato veri e propri remake delle sue pellicole, come valuta i loro lavori? Li ritiene all’altezza degli originali?
Sinceramente non mi preoccupo di dover dare un giudizio a riguardo. Non mi interessa che gli altri mi copino. Io ho i miei film e sono contento così. Quello che posso dire è che la mia motivazione è sociopolitica; gli altri invece non tengono per niente conto di questo aspetto.
La morte è un tema che ricorre costantemente nei suoi film. Che significato le attribuisce?
Fin da ragazzo ricordo di avere sempre avuto fantasie su quello che poteva avvenire dopo. Forse è per questo motivo che inconsciamente, da qualche parte nella mia testa, ho dato forma a una creatura che sta nel mezzo, cioè tra la vita e la morte. Ma le mie storie non raccontano questo. Quello che faccio è sicuramente più incentrato sulla vita e sugli esseri viventi, su persone che non hanno idea di cosa stia accadendo intorno a loro. Torniamo a La notte dei morti viventi: si potrebbero sostituire gli zombi con un tornado e la storia non cambierebbe; il messaggio rimarrebbe esattamente lo stesso. I protagonisti dei miei film sono le persone, non i morti viventi.
Ma da La notte dei morti viventi a oggi la società si è evoluta e dunque le persone. Qual è la differenza col passato? Cosa distingue gli individui di ieri da quelli di oggi?
Negli anni Settanta e Ottanta le persone si muovevano in enormi mandrie prive di senso critico. Mentre oggi il mondo dei social network in particolare, che giudico comunque essere piuttosto pericoloso, ha aperto una porta che ci consente di manifestare i nostri pensieri. Perciò da questo punto di vista credo che le persone siano molto meno “zombi” oggi di quanto lo fossero in passato.
Un regista che deve la Sua fama al genere horror e che ha portato in scena un’infinità di immagini raccapriccianti cosa teme al mondo?
Gran parte di ciò che mi circonda, ben oltre l’immaginario e il mondo del sovrannaturale. Se un giorno dovessi incontrare un vampiro o un alieno non avrei paura; anzi, sarei felice di poterci chiacchierare. Al contrario, temo le bombe, la guerra, il terrorismo, in generale la politica americana, che ormai è diventata un circo.
Di tutti i suoi lavori, qual è quello a cui si sente maggiormente legato?
Nessuno che abbia a che fare con gli zombi. Sicuramente Knightriders (1981) è il mio film più personale, anche se Wampyr (Martin, 1978) resta su tutti il mio preferito.
George Romero con alcuni fan vestiti da zombiGuardandosi alle spalle, è soddisfatto di George Romero?
Non pienamente. Diciamo che sono molto felice del lavoro svolto finora ma vorrei poter fare di più. Ho tantissime idee in testa, ma sono difficili e soprattutto care da realizzare. E purtroppo idee e finanziamenti non vanno mai a braccetto. L’aspetto peggiore in questo senso è creare una buona connessione tra me e la persona che dovrebbe finanziare la mia idea. Difficile che entrambi i nostri pensieri collimino alla perfezione. Spesso infatti si finisce col perdere importanti treni.
E per quanto riguarda il suo futuro?
Lasciamo tempo ai Panama Papers di decidere.