I 15enni Juan, Sara e Samuel fuggono dal Guatemala e si dirigono verso gli Stati Uniti. Nel loro viaggio attraverso il Messico, i ragazzi incontrano Chauk, un ragazzo indiano Tzotzil che non parla spagnolo e non ha documenti ufficiali. Tutti loro sono convinti che al di là del confine tra USA e Messico troveranno un mondo migliore, ma dovranno fare i conti con una dura realtà...
SCHEDA FILM
Regia: Diego Quemada-Diez
Attori: Brandon López - Juan, Rodolfo Domínguez - Chauk, Karen Martínez - Sara, Carlos Chajón - Samuel, Ramón Medína - Caliman
Soggetto: Diego Quemada-Diez
Sceneggiatura: Diego Quemada-Diez, Gibrán Portela, Lucía Carreras
Fotografia: María Secco
Montaggio: Paloma López
Scenografia: Carlos Y. Jaques
Arredamento: Carla García, Vanessa Ortega
Durata: 102
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: ARRIFLEX, CINEMASCOPE, DCP (1:2.35)
Produzione: INNA PAYAN, LUIS SALINAS, EDHER CAMPOS PER ANIMAL DE LUZ FILMS, MACHETE PRODUCCIONES, MEXICAN FILM INSTITUTE, EFICINE, CASTAFIORE FILMS, KINEMASCOPE FILMS
Distribuzione: PARTHÉNOS
Data uscita: 2013-11-07
TRAILER
NOTE
- PREMIO 'UN CERTAIN TALENT' AL 66. FESTIVAL DI CANNES (2013) NELLA SEZIONE 'UN CERTAIN REGARD'.
CRITICA
"Se il cinema è una finestra aperta sul mondo, 'La gabbia dorata' di Diego Quemada-Diez ci mostra qualcosa da cui forse vorremmo distogliere gli occhi, ma sarebbe dovere di tutti conoscere. E' cinema della realtà, cinema autentico, girato tra persone vere, dentro situazioni concretissime, dove la macchina da presa ritrova una delle sue funzioni primarie: mostrare qualcosa che non si conosce, alzando il sipario su un mondo ignorato. Quello al centro del film, opera prima di un ex assistente alla fotografia che ha lavorato per Ken Loach e Isabel Coixet e come operatore alla macchina per Alejandro González Iñárritu, è il mondo che scoprono tre adolescenti guatemaltechi decisi a lasciare la povertà in cui vivono per cercare lavoro negli Stati Uniti. Un viaggio che li costringe ad attraversare il Messico e che si rivelerà ben più drammatico di quanto potessero immaginare. Poche, efficacissime scene ci fanno fare la conoscenza di Sara, Juan e Samuel. (...) Praticamente non c'è una sola battuta di dialogo, non scopriamo niente della loro vita o delle loro famiglie, ma in fondo sono informazioni che non servono (...) il regista (che ha scritto la sceneggiatura dopo un lavoro di ricerca e documentazione che è durato diversi anni) vuole limitarsi alla pura «registrazione» delle loro azioni. Bastano gli sguardi segnati dalla vita e dalla miseria per farci capire quello che le parole avrebbero solo reso a rischio retorica. (...) Un viaggio che per la maggior parte si svolge sui tetti dei vagoni merci che attraversano il Paese e che Quemada-Diez ci restituisce in tutta la sua epica quotidiana, fatta di sofferenza, privazioni ma anche di pericoli e tragedie. (...) Ma quello che in un film di «avventure» potrebbero assomigliare a delle belle trovate di sceneggiatura per aumentare la tensione, qui si rivela per quello che è veramente: il volto vero e tragicamente quotidiano di una società dove sembra esistere solo la sopraffazione della forza e delle armi. Perché il regista, che si è fatto raccontare queste situazioni da chi le ha davvero attraversate, le restituisce sullo schermo senza il minimo orpello spettacolare, preoccupato solo di trasmettere tutto il dramma di chi è condannato ad accettare in silenzio il sopruso e l'umiliazione. Non c'è nemmeno la «tragedia darwiniana» del più forte che sopravvive al più debole: la vita di questi disperati migranti è legata al caso, alla fortuna, alla disperazione, alla speranza. A un certo momento un raggio di umanità e di morale illumina le azioni di qualcuno (si vedrà nel film come e quando) ma è un comportamento che trova una giustificazione solo nel barlume di umanità che un adolescente può portare dentro di sé. È l'unico momento «positivo» di tutto il film, che il caso (e la cattiveria degli uomini) si incaricheranno di vanificare. A Quemade-Diez non interessava dirigere un film che alla fine offrisse un qualche prevedibile happy ending, voleva solo immergere lo spettatore nella realtà senza difese o protezioni: per questo ha scelto solo attori non professionisti (tutti i ragazzi sono bravissimi) e per questo ha raccontato una storia «normale», come ne succedono ogni giorno in Messico e al confine con gli Stati Uniti. Perché solo così poteva girare un film vero. E indimenticabile." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 6 novembre 2013)
"In attesa che qualcuno fra gli esponenti migliori del nostro cinema civile porti sullo schermo i neri drammi di Lampedusa, da anni il cinema continua a metterci di fronte alle condizioni spesso terribili dei tanti migranti che fuggendo la miseria, la fame e a volte anche le persecuzioni nei loro Paesi dell'America Latina, Messico soprattutto, intraprendono viaggi difficili e non di rado con tragici finali per raggiungere da clandestini le minutissime frontiere statunitensi, nella fiducia, o nell'illusione, di trovare di là una vita migliore. Oggi è la volta di un regista spagnolo, Diego Quemada-Diez, da anni trapiantato in Messico, che ha voluto studiare da vicino, rifacendone personalmente gli stessi percorsi, i cosiddetti 'viaggi della speranza' che tendono a far raggiungere gli Stati Uniti dal Guatemala passando ovviamente per il Messico. Un viaggio di quattro giovani, tra loro anche una ragazza e un indio, decisi a tutto, ma a tutto impreparati tanto che, alla meta, da ultimo ci arriverà uno solo e quella meta, ritenuta il 'sogno americano', risulterà invece, come il titolo avverte, una 'gabbia dorata'. (...) Personaggi con le psicologie e le loro reazioni, con il pregio che il regista ha ricostruito le loro realtà con interpreti tutti non professionisti richiesti di esprimersi con dialoghi e gesti improvvisati lì per lì perché tutto, pur rifatto, possa sentirsi come se si verificasse in quel momento di fronte alla macchina da presa. Un'estetica che ricorda il nostro Neorealismo, specie quello di Rossellini, e che Quemada-Diez ha probabilmente assimilato quando, nel '95, è stato direttore della fotografia per Ken Loach nel suo 'Terra e libertà'. Facendone il proprio stile." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo - Roma', 6 novembre 2013)
"Molto notevole davvero il film di Diego Quemada-Diez. Spagnolo trasferitosi negli Stati Uniti, forte di esperienze - alla fotografia - con Loach per 'Terra e libertà', con Alejandro González Iñárritu per '21 Grammi', con Fernando Meireles per 'The Constant Gardener'. Qui al primo film. Ci pare di precipitare nel passato remoto oppure in una di quelle fantasie su un futuro miserabile e repellente che vanno tanto di moda. Invece siamo nell'ordinaria amministrazione del sogno di riscatto che tanti giovani provenienti dalla miseria di Guatemala e Honduras, Nicaragua e Salvador coltivano salendo clandestinamente su un treno merci che, dopo aver attraversato tutto il Messico, li conduca all'impenetrabile frontiera Usa, da varcare con ogni mezzo. (...) Echi tanti (da 'The Millionaire' all'epopea della Grande Depressione) ma con personalità." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 7 novembre 2013)
"Vero come un documentario, emozionante come un romanzo di formazione, lirico e avventuroso come l'Odissea, epico come un film di John Ford. E intessuto di storie e esperienze reali che il regista (esordiente!) ha raccolto facendo più e più volte il cammino dei suoi personaggi, tra il Guatemala e la frontiera degli Usa. Accumulando per dieci anni incontri e racconti, senza fermarsi ai nudi fatti ma estraendo il senso profondo e le diverse visioni del mondo che quelle testimonianze portavano con sé. Fino a mettere insieme un immenso arazzo di storie, sogni, speranze, sventure, che sono l'ossatura di questo film incredibile, e insieme un condensato di tutto ciò che il bombardamento di informazioni in cui viviamo ci mette sotto gli occhi ogni giorno e al tempo ci impedisce di capire. Se credete di avere già visto 'La gabbia dorata' perché parla di migranti e frontiere, toglietevelo dalla testa. Diego Quemada-Diez, alle spalle un lungo tirocinio come operatore per Loach, Stone, González Iñárritu, Spike Lee, non informa, non denuncia, non ricatta a suon di infamie e di orrori, anche se non nasconde nulla di ciò che può capitare, ma avvince, sorprende, commuove lavorando sui suoi protagonisti adolescenti, scelti davvero nelle bidonvilles del Guatemala, e su quanto hanno di più prezioso e universale. Le emozioni della loro età, lo stupore, l'incoscienza, la paura, la durezza e la purezza che accompagneranno Juan, Sara, Samuel e l'indio Chauk, personaggio magnifico quanto incomprensibile perché parla solo tzotzil, la lingua del Chiapas, nella loro odissea contemporanea che è insieme terribile e meravigliosa. Terribile per ciò che accade. Meravigliosa perché fra violenze e ruberie, treni carichi di disperati e paesaggi stupefacenti, Quemada-Diez non perde mai di vista l'aspetto iniziatico di un viaggio che a quelle latitudini è quasi un rito di passaggio. La prova che c'è dell'altro, dentro e fuori di loro, per cui forse vale la pena vivere e magari morire. Anche se oggi è così raro accorgersene, specie nel nostro mondo, e ancora più difficile riuscire a raccontarlo." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 7 novembre 2013)
"Operatore di film quali 'Terra e libertà' e '21 Grammi', Diego Quemada-Diez esordisce con un film che sull'esempio di Ken Loach si impegna a trasferire sul piano della finzione uno spaccato di vita; e di Iñárritu sposa la sofferta tensione spiritualistica. Basato su testimonianze e conoscenza diretta dei luoghi, 'La gabbia dorata' è costruito come un road movie, protagonisti dei migranti adolescenti del Guatemala (...). Ben coadiuvato dai suoi giovani non attori, Quemada-Diez calibra il rapporto fra realtà e finzione con estrema finezza: basti pensare all'uso della neve, che ai ragazzi evoca un idealizzato paesaggio nordico; e che poi, una volta giunti a meta, assurge a gelido simbolo di disumana accoglienza." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 7 novembre 2013)
"(...) un film che non si dimentica facilmente. I suoi personaggi, le avventure epiche e drammatiche che vivono, gli infiniti paesaggi che attraversano si stampano nella memoria fino al punto di trasformarsi in esperienza: quella dello spettatore complice, che patisce e comprende. E' da questo che vogliamo iniziare per introdurre quest'opera di rara potenza, perché nell'abbuffata ingorda di immagini, soprattutto quando legate alla cronaca del reale, tutto passa e si dimentica, scivolando via come acqua sulle rocce ottuse del nostro occhio stanco. 'La gabbia dorata' invece apre un varco, sospende il tempo, stabilisce un diverso ordine tra l'accadere degli eventi filmati e l'esperienza della visione. (...) non dovete in nessun modo pensare che questo sia un film a tesi o ideologico. Tutt'altro. La sua forza è nella placida determinazione di raccontare quasi fosse un'osservazione neutrale una parabola, un viaggio, un'avventura. E lo fa sul serio, dal vero. Il regista è un esordiente, ha alle spalle qualche cortometraggio ma anche una lunga gavetta al servizio di produzioni importanti e di registi famosi, da Ken Loach a Fernando Meirelles. Prendendo da questi quel che gli serviva (il meglio e non il peggio), Quemada-Diez ha fatto la sua strada e ha concepito un film vivo e vero, come i personaggi che racconta. Una sua dichiarazione dice molto di più e meglio: «questo film non è un documentario; è una finzione che si fonda sulla realtà, ricostruendola a partire da un desiderio di autenticità. Abbiamo costruito la struttura narrativa e poetica di questa odissea basandoci sulla testimonianza di centinaia di emigrati e sui sentimenti personali di ogni singola persona che ha partecipato al processo creativo». Ecco, questo è il cinema che vorremmo vedere, il cinema del futuro, capace di riempire lo schermo con la potenza di immagini inusitate e non addomesticate, attraverso una storia che commuove e trasforma le nostre coscienze." (Dario Zonta, 'L'Unità', 7 novembre 2013)
"Lo spettatore è condotto verso un finale fulminante con tutta l'abilità acquisita dal regista spagnolo, lui stesso «migrante» verso gli Usa e poi il Messico, assistente di Ken Loach in 'Terra e libertà', operatore per Fernando Meirelles, Alejandro González Iñárritu, Oliver Stone, Spike Lee e Isabel Coixet, registi che hanno indagato in modo diverso nelle pieghe della storia della conquista. Sarà per questo che emerge accanto all'empatia creata dai personaggi anche il versante un po' didattico nel seguire il tradizionale percorso degli immigrati dal Messico agli Usa nutrito dall'immenso lavoro di raccolta di testimonianze, di cui vuole rendere conto il più possibile, accompagnato però dall'abilità nell'arricchire di energia vitale tutte le difficoltà incontrate, allargando il discorso all'intera esperienza umana. Alle migliaia di migranti che vorrebbero entrare nei territori nordamericani fuggendo fame e mancanza di diritti civili, parecchi registi latini hanno dedicato i loro film che mai hanno raggiunto i nostri schermi, tranne qualcuno, grazie al nome già famoso (Gael García Bernal con 'Los invisibles' del 2010). Girato in 16mm, camera a mano, 'La jaula de oro' si muove tra un confine e l'altro (il documentario, l'avventura, il thriller), rispettoso dei suoi protagonisti e di chi li guarda. Premio Talent a Cannes come miglior esordio e premio ai protagonisti della sezione «Un Certain Regard»." (Silvana Silvestri, 'Il Manifesto', 7 novembre 2013)
"Da non perdere (...) 'La gabbia dorata' di Diego Quemada-Diez su tre ragazzini guatemaltechi, ai quali se ne aggiungerà uno del Chapas, decisi a raggiungere gli Stati Uniti e un'altra vita, lontano dalla miseria nella quale sono cresciuti. Il viaggio verso la terra promessa, costellato da drammatici eventi, è raccontato con stile semidocumentaristico, crudo e rigoroso e ci restituisce non tanto i colpi di scena di una fantasiosa sceneggiatura, ma gli orrori, più attuali che mai, di una reale odissea." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 7 novembre 2013)
"Premiato a 'Un certain regard' di Cannes 2013, 'La jaula de oro' (definizione degli USA da parte dei migranti latini) è l'esordio-gioiello del talentuoso spagnolo ma residente in Sudamerica Quemada-Diez, già braccio destro di Ken Loach. 'Ho voluto teenager non-attori provenienti dai quartieri più emarginati e insidiosi della capitale guatemalteca, un casting di 8 mesi per 3mila provini'. Ecco un sorprendente road-movie di frontiera con l'obiettivo di 'demitizzare' l'unico vero 'gate to heaven' concepito dall'Occidente, ovvero l'entrata negli States. Paese che peraltro ha negato alla produzione di girare in situ, obbligando la ricostruzione in Messico di ogni location/elemento a stelle&strisce. Opera potente senza retoriche, illuminante sugli orrori più oscuri della condizione umana, da vedere e meditare." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 7 novembre 2013)