Julieta, una professoressa di cinquantacinque anni, cerca di spiegare, scrivendo, a sua figlia Antia tutto ciò che ha messo a tacere nel corso degli ultimi trent'anni, dal momento cioè del suo concepimento. Al termine della scrittura non sa però dove inviare la sua confessione. Sua figlia l'ha lasciata appena diciottenne, e negli ultimi dodici anni Julieta non ha più avuto sue notizie. L'ha cercata con tutti i mezzi in suo potere, ma la ricerca conferma che Antia è ormai una perfetta sconosciuta.
SCHEDA FILM
Regia: Pedro Almodóvar
Attori: Emma Suárez - Julieta, Adriana Ugarte - Julieta giovane, Daniel Grao - Xoan, Inma Cuesta - Ava, Darío Grandinetti - Lorenzo, Michelle Jenner - Beatriz, Rossy de Palma - Marian, Sara Jiménez - Bea, Priscilla Delgado - Antía adolescente, Blanca Parés - Antía 18enne, Susi Sánchez - Sara, madre di Julieta, Nathalie Poza - Juana, Joaquín Notario - Samuel, padre di Julieta, Pilar Castro - Claudia, madre di Beatriz, Agustín Almodóvar - Conduttore del treno, Ramón Agirre - Inocencio, Sara Jiménez - Beatriz adolescente, Jimena Solano - Antía a 2 anni, María Mera, Mariam Bachir - Sanáa
Soggetto: Alice Munro - racconti
Sceneggiatura: Pedro Almodóvar
Fotografia: Jean-Claude Larrieu
Musiche: Alberto Iglesias
Montaggio: José Salcedo
Scenografia: Antxón Gómez
Costumi: Sonia Grande
Altri titoli:
Silencio
Durata: 96
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Tratto da: racconti di Alice Munro
Produzione: AGUSTÍN ALMODÓVAR, PEDRO ALMODÓVAR, ESTHER GARCÍA PER EL DESEO
Distribuzione: WARNER BROS. PICTURES ITALIA
Data uscita: 2016-05-26
TRAILER
NOTE
- INIZIALMENTE IL TITOLO DEL FILM ERA "SILENCIO", MA ALMODÓVAR HA DECISO DI CAMBIARLO A CAUSA DELLA CONCOMITANZA CON L'USCITA DEL FILM "SILENCE" DI MARTIN SCORSESE.
- IN CONCORSO AL 69. FESTIVAL DI CANNES (2016).
- CANDIDATO AL DAVID DI DONATELLO 2017 COME MIGLIOR DELL'UNIONE EUROPEA.
CRITICA
"Contropiede Almodóvar. Chi si aspetta il «solito» film colorato e barocco è avvertito: questa volta il regista spagnolo cambia radicalmente stile e messa in scena. 'Julieta' (...) è sì l'ennesimo ritratto femminile del regista, ma questa volta più trattenuto, amaro, doloroso. Perché se c'è un tema che emerge dal film, oltre al peso che vi gioca il destino, è proprio il dolore, una specie di porta stretta e obbligata attraverso cui le persone devono passare per riuscire a capire il senso della propria vita. Un dolore che a volte è represso, sepolto, ma che poi finisce per prendersi la sua rivincita, obbligando le persone a farci i conti. (...) Sembrerebbe una materia romanzesca, e in parte lo è, se non fosse che Almodóvar riduce al minimo il gusto del racconto per limitarsi a una serie di incontri/ritratti dove mette in evidenza soprattutto le tensioni, le paure, le gelosie, come preoccupato di ricordare allo spettatore che ogni (momentanea) gioia nasce dal dolore e dalla sofferenza di qualcun altro. (...) Riducendo al minimo la propria tradizionale esuberanza e la vitalità contagiosa delle sue precedenti eroine, capaci di superare ogni ostacolo, Almodóvar racconta la depressione e la sofferenza che possono catturare le persone. Un po' per «colpa» dei racconti di Alice Munro (dalla raccolta 'In fuga') che sono serviti da ispirazione al film, ma molto per un'evidente cambio di tono registico e psicologico: finiti gli anni dell'entusiasmo spensierato e colorato, oggi il regista parla di cose che in passato aveva rimosso ma che evidentemente non aveva cancellato. A cominciare dal senso di colpa, che in Julieta diventa il vero motore del dolore che divora l'anima delle persone. Ne esce così un film volutamente incompiuto, che lascia le soluzioni sospese, che porta lo spettatore a confrontarsi con il prezzo che ogni felicità sembra avere (non c'è un personaggio che non faccia i conti con la morte, la malattia o l'abbandono) ma che pur negando ogni lieto fine ci ricorda come l'esperienza del dolore e della sofferenza vadano guardare in faccia, senza infingimenti e soprattutto senza false coscienze. E che sullo schermo prendono la forma di uno scavo doloroso e sottile nella vita delle persone." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 18 maggio 2016)
"(...)nel tanto atteso 'Julieta' (...) Almodóvar ci dà il suo film meno riuscito malgrado la trama ispirata a tre racconti di Alice Munro. (...) un moltiplicarsi di scene, colori, trovate e flashback molto 'alla Almodóvar', sia pure in chiave più malinconica. Ma senza mai provocare un brivido nello spettatore. Come se tutto ciò che ha fatto fino ad oggi lo stile inconfondibile dell'amatissimo regista spagnolo, di fronte a una materia così bruciante si rivelasse inutile, inerte, di colpo datato. In fondo è questo il vero mistero. Speriamo che il prossimo film lo risolva." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 18 maggio 2016)
"Nel cinema di Pedro Almodóvar tornano le donne, tenere e materne, forti e determinate, sempre sull'orlo di una crisi di nervi, ma pronte a ricucire ferite e riallacciare abbracci spezzati. (...) Nel film, già ribattezzato 'Tutto su mia figlia', tornano tanti elementi almodóvariani - i colori accessi, gli anni Ottanta, la malattia, la morte, la figura della madre, il thriller, il melodramma, il dolore della perdita, il senso di colpa, i nodi del passato che vengono al pettine - ma il regista sembra orchestrarli senza cedere ai fiammeggianti eccessi di gioventù, con più rigore e controllo, in accordo con l'emotività trattenuta e le atmosfere sospese della Munro. Ed è forse questo il punto più debole di un film durante il quale aspettiamo qualcosa che non arriva mai, un segreto ancora più inimmaginabile, un mistero più intrigante." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 18 maggio 2016)
"(...) il nuovo attesissimo 'Julieta' (...) è una mezza delusione. Per carità: sola mezza! Parliamo di un film di superba fattura, con una sceneggiatura calibrata e atmosfere torbide da autentico mélo. Però non scatta la commozione, e manca l'ironia che Pedro riusciva a tirar fuori anche nelle storie più dolorose. Inoltre la recitazione è inferiore a molti film del passato. Almodóvar, negli anni, ha portato a performance superlative attrici come Penelope Cruz, Marisa Paredes, Carmen Maura, Cecilia Roth e tante altre. Qui, delle sue affezionate, c'è la strepitosa Rossy de Palma alla quale basta un ruolo da caratterista (...) per mangiarsi in un boccone il resto del cast. E pensare che 'Julieta' avrebbe bisogno, per funzionare al 100 per 100, di attrici super. (...) Da giovane, Julieta è Adriana Ugarte; da matura, è Emma Suarez. Nessuna delle due sembra in stato di grazia, inoltre non si somigliano per nulla, anche se la scena in cui si passano il testimone è un colpo di genio. Ma è il versante maschile del film a essere curiosamente scarso, con attori che recitano battute melodrammatiche con faccia da pesce lesso. 'Juilieta' è un film sul senso di colpa, pervaso da un dolorosissimo senso di morte. Secondo noi lo sceneggiatore Almodóvar, che pure è uno dei più bravi costruttori di trame su piazza, esagera nell'infierire sui personaggi, nel farli schiattare quasi tutti fra atroci sofferenze o inopinate disgrazie. Alla fine la crudeltà del destino non ha più nulla a che vedere con la verità dell'esistenza, diventa un meccanismo narrativo, un congegno a orologeria che spinge anche il regista Almodóvar a una messinscena scarna, fredda, priva di fascino. Mettiamola così: è un buon film, ma Almodóvar ne ha fatti di migliori. (...) Forse il duro lavoro sui racconti della Munro, stipati uno dentro l'altro, ha provocato una sorta dl fusione a freddo che ha congelato anche il film." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 18 maggio 2016)
"(...) un ritorno al melodramma femminile, ma in quella versione più sobria, «rispettabile», a cui il regista di 'Matador', è ricorso spesso nelle sua opera; una vena del suo cinema non particolarmente ispirata, ma che Almodóvar rielabora ormai con maestria impeccabile e su cui ha cementato la sua reputazione di grande autore europeo. (...) Con l'aiuto delle costruzioni perfette e dolcemente implacabili di Munro, Almodóvar gioca con gli scarti/scherzi del destino. Le piccole decisioni che risultano in catastrofi, i momenti che uno vorrebbe riprendersi ma non può. Il peso delle cose che non si sono mai chieste, delle conversazioni non avvenute." (Giulia D'Agnolo Vallan, 'Il Manifesto', 18 maggio 2016)
"Nonostante si ispiri a tre racconti tra loro collegati del premio Nobel canadese Alice Munro (...), il nuovo film di Almodóvar è riconoscibilmente suo, e anzi segna un ritorno a una vena più controllata e felice dopo alcuni passi falsi o mezzi falsi (...). Siamo, tanto per cominciare, in pieno mélo fin dall'inizio (...), siamo precisamente in quello che gli americani chiamano 'maternal melodrama', il melodramma di madri e figlie, uno dei generi più fiammeggianti e viscerali. Rispetto ad altri film di Almodóvar, il tono è esplicitamente più trattenuto, quasi che, più che lasciarsi andare, il regista volesse anzitutto scrutare i meccanismi della sofferenza, dell'amore, del lutto, con una suspense ben oliata, sulle musiche di Alberto Iglesias che a tratti ricalcano quelle di Bernard Herrmann per i film di Hitchcock. La scena iniziale in treno, che racconta l'incontro tra Julieta e il suo futuro compagno, è un vero pezzo di bravura. E tutto il film ha una sua coesione indubbia, anche quando la freddezza può rendere lo spettatore meno partecipe. Almodóvar ha poi una maniera sopraffina di filmare le donne, che qui è abbastanza depurata anche da ogni gusto pop. Il personaggio principale è interpretato da due attrici ugualmente brave e diversamente affascinanti (...). Tutte e due recitano con compostezza attraversando sventure e passioni nell'arco dei decenni, in tono con quello che lo stesso regista ha definito (...) un dramma asciutto, senza strepiti." (Emiliano Morreale, 'La Repubblica', 18 maggio 2016)
"(...) il nuovo 'almodramma' perde il carattere esuberante e trasgressivo per farsi più sobrio e pacato. Se i colori rimangono vivi (...) lo spirito provocatore e il residuo del vecchio bagaglio kitsch rimangono fuori della porta. Nonostante il dolore, la colpa, il rimpianto siano anche questa volta i motori del dramma, Julieta è solo una lontana parente di quelle donne appassionate, viscerali, capaci di esse vitali anche nelle condizioni più avvilenti (...) fino a ieri materia viva del suo cinema. Qui la protagonista è afflitta da un dolore insormontabile a cui solo il destino può porre rimedio. (...) Almodóvar, affabulatore efficace, ricorre ancora una volta alla macchina, perfettamente oleata, della narrazione epistolare. Tutta la vicenda, o quasi, è offerta allo spettatore in un lungo flash-back. (...) La sequenza della notte permette ad Almodóvar di regalare qualche scena di grande efficacia con evidenti richiami a Hitchcock (il modello dopo Douglas Sirk) anche se è rubata alle pagine di Alice Munro ai cui racconti la sceneggiatura è ispirata. (...) Approfittando della dimensione tragica del racconto, attraverso la figura di madre maledetta che trasmette alla figlia il peso della colpa come se la contagiasse d'una malattia, Almodóvar parla senza mediazioni della fugacità dei legami, della fragilità degli esseri come mai gli era capitato prima: in un parola porta sullo schermo quel genere di sentimenti che il cinema di oggi sembra avere dimenticato e relegato in un lontano passato." (Andrea Martini, 'Nazione-Carlino-Giorno', 18 maggio 2016)
"Con 'Julieta' (...) Pedro Almodóvar rivoluziona completamente il proprio cinema, elimina qualsiasi traccia di melodramma, di opera buffa e di eccessi, mette la sordina all'eterno cicaleccio con punte di isteria del suo universo femminile, si riconcilia con quello maschile a cui riconosce una dignità, sobrietà e altruismo prima negati. II risultato è un film tragico, dove non ci sono carnefici, ma solo vittime, si è colpevoli senza volerlo, si è giudicati senza che lo si sappia e ci si possa difendere (...). In un'ora e mezzo scabra e fatta di ellissi e sapienti artifici (il volto di Julieta giovane che davanti allo specchio e sotto le mani della figlia si trasforma nella donna sofferente che è diventata) Almodóvar fa il film che meno gli somiglia e che però più lo rappresenta." (Stenio Solinas, 'Il Giornale', 18 maggio 2016)
"Il nuovo film di Almódovar avrebbe dovuto intitolarsi «Silenzio». Il silenzio che ci portiamo nella tomba, quello delle parole non dette a chi vogliamo bene, a chi ci vuole bene. Il nuovo film di Almodóvar si intitola invece «Julieta» (...) è bellissimo e non assomiglia a nessuno dei suoi film precedenti. Ci sono tutti i grandi temi cari al regista spagnolo, il dolore, il desiderio, la famiglia, la madre. Ma per la prima volta dopo quarant'anni sono raccolti in una tragedia. Un dramma secco, nudo, talvolta crudo. Non un melodramma. Proprio il contrario del melodramma, nessuna situazione inverosimile e personaggi manichei per esorcizzare il male e provocare la liberazione dei sentimenti. Qui non c'è nessuna teatralità che sublimi la tristezza e la disperazione. Non si ride mai, e nemmeno si sorride, ma sarebbe sbagliato dire che ci si emoziona meno. La narrazione è ellittica, tutta strappi, accelerazioni ed ellissi per dire la fragilità dei legami che ci tengono uniti. Ogni personaggio è inseguito dall'età, dagli incidenti, dalle malattie. E tutto vi dice che la vita è un susseguirsi di perdite e addii laceranti. Si soffre insieme a una donna che, pur non essendo credente, prova un immenso senso di colpa per la morte del marito, un senso di colpa che si trasmetterà di madre in figlia, come una malattia genetica, come un'antica maledizione. (...) Finale splendido, tutto in levare, di una pellicola scarna, pelle e ossa, e per questo magnifica. (...) Non alzatevi dalla poltrona quando il film è finito, restate seduti mentre sfilano i titoli di coda e ascoltate Chavela Vargas, cantante messicana scomparsa quattro anni fa e amica di Almodóvar, ascoltatela mentre canta: «Se non te ne vai ti do la mia vita»." (Marco Dell'Oro, 'L'Eco di Bergamo', 18 maggio 2016)
"(...) un film sommesso, sobrio, crepuscolare (...) del sessantaseienne Pedro Almodóvar intento a ripensare se stesso (...) Temerario nel mostrarsi distaccato dalla vigoria ritmica e la provocazione sgargiante che hanno a lungo arricchito la sua fama e il suo palmarès, il regista manchego vi ha, infatti, trasposto tre racconti di Alice Munro distillandone un mix che a qualche spettatore (...) sembrerà rigido e algido, ma a noi pare invece essenziale e classico. A cominciare dalla stoffa rosso fuoco che nell'incipit, in accordo con le malinconiche musiche di Alberto Iglesias, funziona da richiamo iconico ai simbolismi del sesso, il sangue e la passione da sempre vettori del melodramma, ma subito dopo si rivela un dettaglio di stoffa del vestito della protagonista, la fascinosa ed elegante cinquantenne Julieta (...). Non si può pretendere che tutti riconoscano nel razionale pessimismo del regista la fedeltà alla personale galleria cinefila in cui spiccano «Il romanzo di Mildred», «Lo specchio della vita» o «Rebecca - La prima moglie», però è auspicabile che si colgano e apprezzino le sfumature, i non-detti, le folate del dolore, le maledizioni e i complessi di colpa in grado di trasformare gli automatismi da feuilleton in materia cinematografica allo stato puro. Il risultato, secondo noi, entra nella prima fila dei ritratti femminili del regista, in particolare per il (sia pure non inedito) riferimento ai rapporti madre-figlia forieri di rivalità, gelosia, risentimenti, desiderio d'identificazione e gesti di brutale emancipazione. Un'altra caratteristica del film che lo rende importante, magari non nell'immediato bensì a mano a mano che si sedimenta nella memoria, è la prestazione delle due attrici, la Suarez e la Ugarte (...): la seduttività, la fragilità, il narcisismo di cui sono portatrici non sono incrementati dal ricorso alle scene madri proprio perché la loro classe riesce a racchiuderle nella preziosa misura delle espressioni, le movenze e gli scambi dialogici. Protagonista importante, nello stesso senso stilistico, è anche la fotografia di Larrieu pronta a tradurre il sentito e tormentoso «spaesamento» di Almodovar nel gioco inesausto, sottile, prezioso dei colori." (Valerio Caprara, 'Il Mattino' 26 maggio 2016)
"Spostata la cornice dal Canada alla Spagna, fra Andalusia e Pirenei, il regista si intona alla pagina smorzando le tinte e virando su un registro secco e severo, ma nel farlo indebolisce lo spessore drammatico del racconto - in buona sostanza poco ti importa delle pene della madre e ancor meno della figlia - che in lui usa accendersi alla miccia di più debordanti passioni. E tuttavia Almodóvar è Almodóvar, e del film intriga e avvince la succosa tessitura formale, i primissimi piani che esaltan o la valenza simbolica degli oggetti, le atmosfere avvolgenti, gli accostamenti azzardati dei colori; e una pervasiva tensione che va a sciogliersi in un finale, per una volta, saggio e quasi sereno." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 26 maggio 2016)
"L'ispirazione arriva da tre racconti del premio Nobel Alice Munro, la condensazione in un mélo inconfondibile è tutta sua. Almodòvar e l'ossessione per le figure femminili/materne non sembra placarsi, anzi, con l'età appare intensificarsi dentro a opere ultimamente così simili tra loro che si fatica a ricordarle distinte. 'Julieta' non è che l'ultima arrivata alla sua attenzione (...). In una pellicola che dunque non aggiunge eccellenza alla stimata carriera del più popolare autore spagnolo vivente, si mantengono intatte l'eleganza di stile e il modo 'almodovariano' di omaggiare Hitchcock, caratteristica di questa sua fase estetica. (...) si volge prevalentemente a una platea femminile." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 26 maggio 2016)
"Piacerà agli ammiratori di don Pedro della Mancha (tra i quali molte colleghe femmine che hanno sempre pronte le quattro stellette di critica ogni volta che si rifà vivo). E anche a chi lo ama, sì, ma a corrente alternata (com'è giusto). Perché stavolta il melodramma è asciugato, quindi credibile, quindi convincente. A 65 anni, Pedro s'è accorto che i sentimenti non vanno per forza gridati." (Giorgio Carbone, 'Libero', 26 maggio 2016)
"Un film su perdita, colpa, espiazione e attesa, nel quale Almodóvar, con freno a mano tirato, ripropone tutti gli stilemi e le ossessioni del suo cinema, ma senza incantare." (Maurizio Acerbi, 'Il Giornale', 26 maggio 2016)
"(...) un thriller che continuando a imporre rivelazioni, induce alla fine a non capire come finisce, nuova trappola del regista spagnolo: e nessuno lacrima, malgrado la quantità di malattie, passioni, morti, funerali, tradimenti, separazioni, abbandoni, sparizioni (queste non del tutto credibili [...]). E non basta neppure la singhiozzante musica di Alberto Iglesias a zuccherare una storia che viene dal Canada, dalla lucida scrittura di un premio Nobel, Alice Munro, (...). Un film ha una sua vita che non dipende da quella del regista. Ma se Almodóvar, al suo 26° film e a 66 anni si è lasciato sedurre dalla Munro e ha intriso il film di dolore e solitudine, sensi di colpa e depressione, può anche voler dire che pure per lui non è più tempo di avventure, di leggerezza, di trasgressione." (Natalia Aspesi, 'La Repubblica', 27 maggio 2016)
"Un ritorno di Almodóvar al suo 'universo femminile' (...). Questa volta, a enunciarne lo schema narrativo, il film sembrerebbe rifarsi a un melodramma, invece per l'analisi attenta delle psicologie di quelle tante donne, va soprattutto considerato dal punto di vista dell'intimismo, per quei nodi intenzionalmente sciolti con ritardo, per quell'amore materno che confina ma sempre con piglio asciutto, in un vero e proprio dolore. In cornici, costruite visivamente sempre secondo linee meditate, intervallate dalle presenze, abituali in Almodóvar, di esempi molto alti e colti dell'arte contemporanea, pittura e scultura, smussate in certe loro asprezze, dalle musiche di Alberto Iglesias, sempre presente nel cinema di Almodóvar ma qui particolarmente attente a evitare di dare spazio a quegli spunti di melodramma presenti a volte nel testo. Per Julieta (...), due attrici anziché una sola artificiosamente invecchiata dal trucco, Adriana Ugarte ed Emma Suárez. Due volti che non si dimenticano." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 28 maggio 2016)
"Come trattenendo il respiro sul suo stile parodistico, spesso di vertiginosa vitalità mélo, l'autore di 'Parla con lei' ripensa con distacco radiografico ai fondamentali del suo cinema: certe radici nevrotiche della passione al femminile, i silenzi, gli equivoci e, soprattutto, i sensi di colpa tra madri e figlie nelle generazioni, i lutti che separano e preparano illuminanti ritorni. (...) Il film aggiunge rivelazioni, personaggi, disgrazie, allontanandosi dall'impareggiabile nonchalance drammatica del premio Nobel, verso l'esuberante emotività analitica del regista. Cast discontinuo, spicca la Suarez. Douglas Sirk visitato da Bergman secondo Almodóvar." (Silvio Danese, 'Nazione-Carlino-Giorno', 28 maggio 2016)