Il proprietario di una società d'informatica mette in vendita l'azienda e per coprire una serie di scelte impopolari decide di inventarsi la figura di un finto Presidente, che nessuno ha mai visto. Tuttavia, quando i possibili acquirenti della società cominciano ad insistere per incontrare faccia a faccia il 'Boss', l'uomo assume un attore fallito per interpretare il ruolo del Presidente...
SCHEDA FILM
Regia: Lars von Trier
Attori: Jens Albinus - Kristoffer, Peter Gantzler - Ravn, Fridrik Thor Fridriksson - Finnur, Benedikt Erlingsson - Interprete, Iben Hjejle - Lise, Henrik Prip - Nalle, Mia Lyhne - Heidi A., Casper Christensen - Gorm, Louise Mieritz - Mette, Jean-Marc Barr - Spencer, Sofie Gråbøl - Kisser, Anders Hove - Jokumsen, Lars von Trier - Narratore (v.o.
Soggetto: Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier
Fotografia: AUTOMAVISION®
Montaggio: Molly Malene Stensgård
Effetti: Peter Hjorth
Altri titoli:
My Man the President
The Manager of It All
The Boss of It All
Durata: 99
Colore: B/N-C
Genere: COMMEDIA
Produzione: LARS VON TRIER PER ZENTROPA PRODUCTIONS, MEMFIS FILM, SLOT MACHINE, ZIK ZAK KVIKMYNDIR
Distribuzione: LUCKY RED (2007), DVD: MEDUSA HOME ENTERTAINMENT
Data uscita: 2007-01-05
NOTE
- DOPO 'DOGMA95', CHE HA SUPERATO, LARS VON TRIER CONTINUA LA SUA RICERCA NELL'INNOVAZIONE TECNICO-FORMALE DEL CINEMA. IN QUESTO FILM LA FOTOGRAFIA E' FATTA IN AUTOMAVISION®, UN PROGRAMMA COMPUTERIZZATO ELABORATO DAL REGISTA PER PRESTABILIRE LE INQUADRATURE E I MOVIMENTI DI MACCHINA SENZA L'INTERVENTO UMANO.
CRITICA
"Lars von Trier, geniale regista danese de 'L'elemento del crimine', 'Le onde del destino', 'Dogville', vincitore di sette premi al Festival di Cannes, ideatore del manifesto Dogma95 ora decaduto, ha appena compiuto 50 anni. Ha reso pubblica una 'Dichiarazione di Rivitalizzazione' nella quale afferma d'essere stufo della sua vita dopo circa trent'anni di lavoro, di voler cambiare le cose e ritrovare il suo entusiasmo originario per il cinema. Ha cambiato molto, con 'Il grande capo'. Ha girato in danese con attori danesi. Ha usato una tecnica chiamata Automavision: 'Le possibilità visive della storia sono tutte inserite in computer, basta premere un pulsante'. Ha realizzato un film che può riferirsi ad ogni rapporto padrone-dipendente, ad ogni rapporto esistente in ufficio. Ha diretto, dopo nove film drammatici, una commedia sarcastica, divertente, ricca di allusioni politiche e sociali. (...) Del metodo Automavision lo spettatore si accorge poco, al film assai contemporaneo può divertirsi molto." (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 5 gennaio 2007)
"Il nuovo e geniale lavoro di Lars Von Trier si apre con una menzogna plateale detta dalla voce dello stesso regista e procede a colpi di finte, di voltafaccia, di simulazioni più o meno riuscite, ma dalle conseguenze sempre imprevedibili. Del resto, sembra dire beffardo il danese (che da autore-produttore se ne intende), cos'altro è il Potere se non una mascherata, un bluff, un gioco ininterrotto di ruoli e simulacri? Messa così può sembrare una faccenda concettuosa e tardo-pirandelliana. Ma Lars Von Trier, troppo abile (e cinico) per cadere nella trappola, gioca sul lato comico. Ed ecco moltiplicarsi gli equivoci, le gaffes, i tentativi precipitosi e spesso rovinosi di limitare i danni. Mentre gli eterni trabocchetti aziendali, le invidie, le frustrazioni, gli amori, le rivalse anche erotiche, le piccinerie di ogni genere, si intrecciano con effetti esilaranti alle fumisterie intellettuali dell'attore chiamato a recitare dal vero, ma troppo digiuno di bilanci e informatica, e troppo innamorato dei sacri testi, per non teorizzare su ogni suo gesto e intonazione. Il tutto ripreso da angolazioni bizzarre se non deliranti perché la macchina da presa, affrancata dal controllo umano, segue un programma computerizzato messo a punto dallo stesso Lars Von Trier. Sicché le inquadrature e le illuminazioni più arbitrarie si susseguono con effetto che per qualche minuto sconcerta ma al quale presto ci si abitua e questa forse è la cosa davvero sconcertante, come tutto questo film che insieme ai meccanismi del Potere smonta anche quelli dello Spettacolo, mostrandocene l'intima parentela in termini di maschere, di narcisismo, di compensazioni affettive. Chi ha visto 'The Kingdom' e 'Le 5 variazioni' conosce il lato ironico dell'autore di mélo come 'Le onde del destino'. Ma 'Il grande capo' resta una gran bella sorpresa". (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero, ' 5 gennaio 2007)
"Se non esitasse a chiudere il film, Lars von Trier avrebbe firmato con 'Il grande capo' una delle opere migliori del 2006. Ma, anche così, è una verosimile ricostruzione di vita aziendale, dove il padrone si libera dei soci, ma è imbarazzato di perdere l'immagine di bonario primus inter pares. Il quadretto del paese del Lego è amaramente esilarante. Tutti i personaggi sono i visti solo in un ufficio e in orario lavorativo, con le nevrosi che accompagnano questa forma di alienazione collettiva. Sono allucinati i lavoratori disoccupati finlandesi dei film di Kaurismäki? Sono addirittura fulminati i tecnici computeristi del film di von Trier, così presi dal loro gergo da non accorgersi di essere stati presi in giro, per anni, dal loro amico/socio/padrone e d'esser giunti alla fine del loro sogno d'autogestione. Von Trier non rivela subito il dramma. Anzi, all'inizio tutto pare una farsa... (...) Stravaganza, abbruttimento, delirio confluiscono in un'allegra disperazione. Chi ha angosce di lavoro, troverà compagnia nel Grande capo e anche quella consolazione che gli ingenui cercano nelle commedie brillanti." ('Il Giornale', 5 gennaio 2007)
"Anche se la trilogia americana riveduta e corretta in stile brechtiano da Von Trier è ora sospesa, il suo 'Il grande capo' è in ogni caso una glossa sulla finanza e su quel tipo di capitalismo virtuale che nasce nei costumi americani. Lars, abbandonando ma non del tutto il suo pessimismo universale, ci comunica che stiamo guardando una commedia e ci insegna, bontà sua, come dobbiamo leggerla, dimenticarla, e di quali emozioni dobbiamo far tesoro. Lo spunto è intelligente e spiritoso, degno di una commedia sofisticata dei tempi d'oro di Preston Sturges o Frank Capra, meriterebbe un remake da un regista americano. Nelle mani intelligenti ed ironiche del regista delle 'Onde del destino' e 'Dogville' resta purtroppo allo stato di idea, gli manca il dono del dialogo, dell'humour, del ritmo, di quel concertato a molti toni e di quel gusto della commedia degli equivoci che lui, nordico erede dei padri Ibsen e Strindberg, qui puntualmente insultati, non possiede nel suo Dna. (...) La morale è che l'economia oggi è teatro. Attori bravi con ipotesi sindacale verso gli umiliati, offesi e licenziati dal potere della grande industria anche nell'epoca del manager virtuale, specie se nascosto. Ma anche se in forma di commedia, claustrofobica e tutta di testa, aleggia il pessimismo del Dogma e qualche molesto vezzo tecnico come quello, quasi una firma, del piccolo salto d'immagine, accelerazione del fotogramma, per significare chissà che cosa, chissà perché." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 5 gennaio 2007)
"Chi ama il Lars von Trier dell'estremismo 'Dogma' può restare spiazzato. Chi non stravede per lo sperimentalismo un po' supponente del regista danese può avere una piacevole sorpresa. Perché 'Il grande capo' è un film diverso dagli altri dell'autore di 'Le onde del destino', è un'opera nel segno della grande commedia americana e dell'illusione scenica del Lubitsch di 'Vogliamo vivere!'. Con abilità drammaturgica e facendo della sua attrazione fatale per il digitale un elemento strutturale, von Trier costruisce la trama intorno alla figura di un attore teatrale ingaggiato da una società danese per impersonare il presidente durante la firma di un importante contratto. (...) La commedia degli equivoci si alimenta con soluzioni sofisticate di humour e situazioni paradossali, ma non rinuncia all'affondo politico. Il regista invita a riflettere sulla società moderna nell'era di Internet, punta il dito contro la nuova burocrazia, la perdita del contatto umanità e delle prospettive di crescita professionale." (Alberto Castellano, 'Il Mattino', 6 gennaio 2007)