In una comunità che sta soffrendo la piaga della sterilità, che si crede sia una punizione per aver trascurato Dio e per aver permesso che la Cattedrale di Macon cadesse in rovina, una donna grottescamente gravida, che ha superato l'età per concepire un figlio, è assistita da tre levatrici, le quali si aspettano di farle partorire un mostro. La storia è raccontata come un'opera in tre atti in un teatro di provincia nel 1650 davanti ad un pubblico vivace, dove l'ospite più importante è Cosimo, un diciassettenne ingenuo che si siede insieme al suo gruppo di preti e suore sul proscenio. Nonostante tutte le aspettative, sia del cast che del pubblico, sul palcoscenico nasce un bambino sano e bello, e da un'esame della placenta si presagisce che sarà un bambino miracoloso. Quando alcune mogli sterili e ricche offrono a una delle figlie della puerpera del denaro, per poter toccare il Bambino affinchè le renda fertili, la diciottenne ambiziosa approfitta immediatamente della situazione e si arricchisce. Mentre continua a proclamare la sua verginità, che ha fatto pubblicamente verificare, dichiara che il Bambino è suo, e fa imprigionare sua madre e corrompe il padre con i profitti guadagnati tramite la vendita delle benedizioni del Bambino. La Chiesa prospera, vendendo all'asta i liquidi del corpo del Bambino - la sua saliva, le sue urine, il muco e il sangue . Per vendicarsi, la sorella soffoca il Bambino nel suo letto sui gradini dell'altare e viene condannata a morte, ma una legge del posto stabilisce che una vergine non può essere giustiziata. Sarà Cosimo, il religioso appassionato, a proporre una soluzione, suggerendo che la sorella venga incarcerata nel posto di guardia, in modo che la milizia, benedetta dal Vescovo, possa organizzare la deflorazione secondo i falsi esempi religiosi del martirio sado masochista. Difronte al pubblico che segue, il quale non sospetta che la realtà sta sostituendo il dramma teatrale, l'attrice che interpreta il ruolo della sorella è costretta a subire l'umiliazione del personaggio interpretato. Ella muore dopo la sua orribile esperienza, e la sua famiglia, a causa di una legge e per disgusto verso se stessa, muore con lei.
SCHEDA FILM
Regia: Peter Greenaway
Attori: Julia Ormond - La figlia, Ralph Fiennes - Figlio del Vescovo, Philip Stone - Il Vescovo, Jonathan Lacey - Cosimo Medici, Don Henderson - Il Padre confessore, Celia Gregory - Madre Superiora, Jeff Nuttall - Il maggiordomo, Jessica Stevenson - La prima levatrice, Kathryn Hunter - Seconda levatrice, Gabrielle Reidy - Terza levatrice, Anna Niland - La balia, Diana Van Kolck - La madre, Tony Vogel - Il padre, Tatiana Strauss - Prima Suora, Louisa Milwood Haigh - Seconda suora, Rien Kroon - Il cappellano, Bert Sevenhuijsen - Il diacono, Graham Valentine - La Fame, Jan Sepers - Carpaccio, Nils Dorando - Bambino di Macon, Phelim McDermott - Primo tutore, Leslie Cuss - Secondo tutore, Richard Blair - Primo soldato, Tony Dunham - Secondo soldato, Humphry Sallons - Servo di Cosimo, Hans De Bosch - Servitore, Sjoerd Ghijssen - Servitore, Michiel Riedijk - Servitore, Denis Rudge - Servitore, Frank Egerton - Voce fuori campo
Soggetto: Peter Greenaway
Sceneggiatura: Peter Greenaway
Fotografia: Sacha Vierny
Montaggio: Chris Wyatt
Scenografia: Ben van Os, Jan Roelfs
Costumi: Ellen Lens, Dien van Straalen
Durata: 112
Colore: C
Genere: ALLEGORICO
Specifiche tecniche: SCOPE
Produzione: ALLARTS - UCG IN ASSOCIAZIONE CON CINE ELETTRA, CHANNEL FOUR, FILMSTIFUNG, NORDRHEIN WESTFALEN, LA SEPT CINEMA.
Distribuzione: ISTITUTO LUCE ITALNOLEGGIO CINEMATOGRAFICO (1993) - VIDEO CLUB LUCE
NOTE
- REVISIONE MINISTERO DICEMBRE 1993.
- PRESENTATO AL FESTIVAL DI CANNES.
CRITICA
"The baby of Macon di Peter Greenaway è un film odioso. Ammirevole per la sapienza della regia, l'eleganza della messinscena, l'ambizione della fantasia, la ricchezza dei riferimenti culturali, lo splendore delle scenografie, dei costumi della coreografia, ma incontestabilmente odioso. Poco male, certo. Mica è obbligatorio essere carini e simpatici. Se non fosse che questo film odioso è portatore di un curioso paradosso. Quello di usare la stessa forma di lenocinio che condanna, quello di essere disonesto come il bersaglio che vuole colpire. Greenaway smercia sul mercato delle bugie e delle reliquie artistiche quella che pretende sia una denuncia dello sfruttamento delle superstizioni religiose. Ma Greenaway, simulando una denuncia della visione religiosa della Controriforma che arriva fuori tempo massimo e ha toni "antipapisti" rugginosi, in realtà, con il suo uso inutile e gratuito della violenza, opera nei confronti dei suoi spettatori, portati a vederlo nella luce della grande arte, lo stesso sfruttamento "pornografico" che nei confronti dei suoi fedeli creduloni operava il mercato ecclesiastico della fede. Greenaway ha dichiarato (o crede veramente) di provocare con la sua "blasfema" rappresentazione l'istituzione Chiesa, e di scendere in campo in difesa dello sfruttamento dell'infanzia sfruttata. Per parlare biblico: farebbe meglio a guardare la trave nel suo occhio e in quello della madre che gli ha prestato - si suppone non gratuitamente - quel bel bamboccio biondo per sfruttarlo come hanno fatto". ("la Repubblica", Irene Bignardi, 20/12/93)
"Che rarità, un film-che-divide! In tempi di mode planetarie perfino un pugno in faccia come questo può essere una benedizione: e diciamo "benedizione" a sottolineare gli intenti non proprio edificanti dell'impresa. Che è un truce e asfissiante pamphlet in costume diretto contro orrori assai contemporanei. Teatro nel teatro (e nel cinema, in un gioco di specchi senza fine), vertigine della finzione, sempre pronta a rovesciarsi in realtà; conflitto fra poteri, mercificazione dell'infanzia: si capisce cosa ha portato Greenaway verso questo film cupo, sfarzoso e affogato in una foresta di citazioni pittoriche in tre soli colori, oro, rosso e nero (la fotografia, un miracolo di esattezza e repulsione, è di Sacha Vierny). Ma il suo mondo non è mai stato più ermetico e ossessivo. E anche se nelle note di regia mette, con bella intuizione, l'arte ecclesiastica di rappresentare i miracoli fra gli antenati del cinema e della pubblicità, l'Horror vacui di Greenaway stavolta gira a vuoto e la denuncia rischia di condividere i metodi di ciò che denuncia". ("Il Messaggero", Fabio Ferzetti, 20/12/93)
"La metafora sociale è spietata. La condanna più che all'attuale sfruttamento dei bambini, è rivolta alla violenza ideologica e fisica dei poteri spirituali e temporali, ai modi mistificanti con cui quella violenza viene presentata e rappresentata. Perfezione della fotografia di Sacha Vierny, splendore e magnificenza della messa in scena (i designers prodigiosi sono Ben Van Os e Jan Roelfs), sapienza figurativa e coreografica: Greenaway è al vertice della sua grande maniera". ("La Stampa", Lietta Tornabuoni, 24/12/93)
"Anche l'Istituto Luce ha preso la cattiva abitudine di non tradurre in italiano (per snobismo? per pigrizia?) i titoli dei film. Non ci voleva molto a trasformare The Baby of Macon in Il bambino di Macon, senza per questo disperdere l'allusione religiosa. Greenaway ha già spiegato alla stampa di essersi ispirato, per reazione, a due celebri fotografie di Oliviero Toscani, rimproverando a quegli scatti pubblicitari (un bambino appena uscito dal ventre materno, una Natività levigata in stile top model) una sofisticata mercificazione dell'infanzia. Chissà se ha ragione. Di sicuro The Baby of Macon, opus numero 8 dell'estroso cineasta architetto-pittore, è un film molto ambizioso: per la laboriosità della messa in scena, l'ambiguità intellettuale del messaggio, il gusto provocatorio nell'accostare la propaganda cattolica della Controriforma barocca alle risorse ingannatrici del cinema. ("L'Unità", Michele Anselmi, 17/12/93)
"E' solo una commedia con musica", si lamenta Cosimo, principe crudelmente candido (per una sorta di impossibilità a rendersi conto dei disastri a cui pur consente) in un'immaginaria Toscana che i costumi e gli arredi spingono a collocare verso la metà del '600. Come noi spettatori non pare gradire quanto gli viene mostrato: una recita davanti a spettatori soffocati dentro parrucche e abiti tutti trine e gingilli che mangiano, ruttano, imprecano, si spostano sul palcoscenico, tornano a sedersi; una parodia in nero di una sacra rappresentazione dove si fa strame di motivi della tradizione cristiana; un "happening" che i cortigiani hanno allestito a consolazione sua e dei notabili. Le battute che abbiamo ricordato possono fornire una chiave per cercare di forzare l'ultima messa in scena di Peter Greenaway, se possibile, ancora più scostante delle sue precedenti, e per avvicinarsi a una macchina scenica che riprende, ingigantendoli, i procedimenti del teatro della crudeltà postelisabettiano. Seduzione e repulsione sono i poli entro cui oscilla il teatro fiorito in Inghiletrra sotto Giacomo I. A quella maniera sontuosamente scenografica l'intero cinema di Greenaway deve molto. Mai però l'empietà, l'assenza di freni del regista britannico ha raggiunto l'ardire di "Il bambino di Macon" (The baby of Macon)". ("Avvenire", Francesco Bolzoni, 21/12/93)
"La consueta visionarietà dell'autore anche questa volta colpisce l'immaginazione, quel dramma in parte solo rappresentato in un teatrino di provincia, in parte così furiosamente vissuto dal pubblico che vi assiste e dagli stessi attori che lo recitano da provocare perfino la morte in scena di una delle sue interpreti, può accogliersi come una trovata intelligente, ma in definitiva sono soprattutto le ridondanze a prevalere: relegando i personaggi e la storia sempre in secondo piano, fino all'astrazione e dando spazio quasi soltanto a quel vistoso carnevale di immagini anche belle ma spesso fini a sè stesse che, al massimo, si possono contemplare, ma con scarsa partecipazione emotiva. Ancora, perciò, più che nell' Ultima Tempesta (dove almeno, di sfondo, c'era Shakespeare), una mera esercitazione di stile: colorata, sapiente, in parecchi momenti perfino suggestiva, ma, nonostante tutti i suoi effetti spinti al diapason, priva di succhi autentici, per il gusto esclusivo di esibire. La cifra cui ormai comincia a tendere l'ultimo cinema di Greenaway". ("Il Tempo", Gian Luigi Rondi, 17/12/93)
"The baby of Macon è un bidone; e Peter Greenaway è un imbonitore": la condanna senza appello di Camille Nevers sui sofisticati "Cahiers du Cinèma" fa a pugni con gli inni da altri critici, anche italiani. E il film che appare ora sugli schermi si conferma assai poco natalizio (pur mostrando la stalla, l'asino e il bue, ma non vi dico in quale contesto...) ed è destinato a scatenare baruffe sotto l'albero. Vi sarei grato se mi concedeste, in tale frangente, di non iscrivermi a nessuno dei due partiti: se mi schierassi contro, cedendo all'impazienza che suscita un rituale di due ore trattato a responsorio con spreco di orrori e cachinni, farei la figura di un filisteo; e se mi schierassi a favore, fingendo di essere andato in estasi, mi sentirei troppo alla moda. Stavolta Greenaway si confessa ispirato da un paio di foto di Oliviero Toscani che denunciavano o assecondavano lo sfruttamento dell'infanzia. Tuttavia lo spunto può richiamare l'episodio dei bambini miracolosi in "La dolce vita", mentre lo stile deve più di qualcosa a "Casanova": Fellini, insomma, colpisce ancora forse perchè il romagnolo, a differenza dell'autore di "Il bambino di Macon" aveva il freno dell'arte. Dal film si esce come dalla rutilante mostra di Greenaway (bozzetti, disegni, manoscritti, video), che la Biennale organizzò a Palazzo Fortuny: sedotti e nauseati. ("Il Corriere della Sera", 18/12/93)