Dopo dodici anni di assenza, Louis, giovane scrittore di successo torna a trovare la sua famiglia per comunicare una notizia importante. Ad accoglierlo trova il grande amore di sua madre e dei suoi fratelli, ma l'evento diventa un'occasione in cui emergeranno non solo i più profondi sentimenti ma anche le questioni irrisolte e i dubbi accumulati nel tempo.
SCHEDA FILM
Regia: Xavier Dolan
Attori: Gaspard Ulliel - Louis, Nathalie Baye - Madre, Léa Seydoux - Suzanne, Vincent Cassel - Antoine, Marion Cotillard - Catherine
Soggetto: Jean-Luc Lagarce - dramma teatrale
Sceneggiatura: Xavier Dolan
Fotografia: André Turpin
Musiche: Gabriel Yared
Montaggio: Xavier Dolan
Scenografia: Colombe Raby
Arredamento: Pascale Deschênes
Effetti: Alchemy 24
Altri titoli:
It's Only the End of the World
Durata: 95
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM (1:1.85)
Tratto da: dramma teatrale "Giusto la fine del mondo" di Jean-Luc Lagarce
Produzione: NANCY GRANT, XAVIER DOLAN, SYLVAIN CORBEIL, NATHANAËL KARMITZ, ELISHA KARMITZ, MICHEL MERKT PER SONS OF MANUAL, TÉLÉFILM CANADA, MK2 PRODUCTIONS
Distribuzione: LUCKY RED
Data uscita: 2016-12-07
TRAILER
NOTE
- GRAN PRIX E PERMIO DELLA GIURIA ECUMENCA AL 69. FESTIVAL DI CANNES (2016).
CRITICA
"Dramma da camera alla Pinter, con una sceneggiatura sopraffina nella sinfonia di rimorsi e rancori, atmosfera di ossessiva malinconia post Cechov. Il canadese Xavier Dolan aggiunge un tassello contro la famiglia tenendosi ancorato a uno stile tradizionale e non isterico in complicità col magnifico cast: Gaspard Ulliel, ammalato di solitudine fra Nathalie Baye, Vincent Cassel, Cotillard e Seydoux, voci soliste di un pezzo di vita che va al macero." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 8 dicembre 2016)
"Il franco-canadese Xavier Dolan è un fenomeno. Già regista di sei film e già vincitore di premi importanti, fino al Grand Prix di Cannes 2016. Artista orchestra: regista, attore, sceneggiatore, produttore, montatore, costumista. Ribaditi insistentemente dai suoi film la centralità della sensibilità gay e l'ossessione per la figura materna. 'È solo la fine del mondo' nasce dall'omonima pièce di Jean Luc Lagarce, di cui non era facile trattenere tensione e linguaggio. (...) Come in 'Chi ha paura di Virginia Woolf?' nel ristretto spazio domestico si snodano incomprensioni, recriminazioni, gelosie. Il non detto ha la meglio sul chiarimento. Magistrale sfilata di interpretazioni, a parte l'imbambolato bel giovanotto protagonista." (Paolo D'Agostini, 'La Repubblica', 8 dicembre 2016)
"Che bello, ancora si può litigare per un film. Anche gli spettatori più anestetizzati possono risvegliare gli antichi furori scegliendo (magari non proprio per un sabato sera) «È solo la fine del mondo». (...) Le reazioni sono, in effetti, diverse e inconciliabili, ma in compenso i dialoghi lunghi e verbosi fanno sì che il crescendo di follia e cannibalismo sentimentale provochi frustranti perplessità nello spettatore non adepto nonostante la vocazione bergmaniana del regista e la prestigiosa caratura degli interpreti. La datata teatralità dell'insieme e l'overdose di grida strazianti e collassi isterici traducono, certo, a squisiti scopi artistici le ossessioni disperatamente disturbanti del regista (...)." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 8 dicembre 2016)
"(...) nonostante una contrastata accoglienza di critica, 'È solo la fine del mondo' conferma il sicuro talento di Xavier Dolan (...). Pur legato a un suo preciso mondo poetico che prevede imperiosi personaggi femminili, figliol prodighi e famiglie disfunzionali, Dolan continua a mettersi alla prova sperimentando linee di linguaggio ogni volta diverse. Così confrontandosi con la pièce più nota del drammaturgo francese Jean-Luc Lagarce (...) il giovane canadese deve aver intuito che per tirare fuori dagli stereotipi personaggi e situazione di questa ennesima variazione sul tema del ritorno a casa, occorreva andare a pescare il non detto nascosto nelle pieghe del testo. (...) una silente imbastitura di insistiti primi piani carichi di verità che le parole nascondono, svelando la fragile imperfezione della natura umana. Bel cast francese al suo meglio, musica avvolgente di Gabriel Yared, morbida fotografia sui toni blu/marrone di André Turpin, Dolan si dimostra uomo di spettacolo sempre più maturo: il suo non sarà un cinema per tutti i palati, ma è vivo, intenso e gronda emozioni." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 8 dicembre 2016)
"Il figliol prodigo, ma senza padre e senza parabola, sebbene nel finale Moby (Natural Blues) canti 'Oh Lordy, trouble so hard'. (...) madri, sorelle e fratelli tutti coltelli, i dialoghi ridotti a clangore, l'incomunicabilità per campo di battaglia, l'apocalisse prossima ventura. Dolan (...) ci sguazza: chiude ogni via di fuga, satura le immagini, sutura il montaggio e - il paragone con 'Carnage' di Roman Polanski dalla pièce di Yasmina Reza non tarderà a sovvenirvi - prepara il carnaio. Nessuno pare capace di mettersi in ascolto, di dirsi: la prevaricazione è il basso continuo, la paura il riff, il calar della sera il refrain. (...) occlude ogni respiro e preclude ogni accoglienza Dolan fotografa l'inautenticità delle relazioni familiari, e segnatamente borghesi, indugiando su sopraffazione e remissione, vittime e carnefici, capro espiatorio e bestialità. Non si salva nessuno, nemmeno Louis: al solito retorico 'dove andremo a finire?' Dolan risponde con il titolo, è solo la fine del mondo. Lo fa a 27 anni, e con una gamma di colori che forse non conosce ancora tutte le sfumature dell'animo umano, dunque, il caro vecchio chiaroscuro psicologico: tutto è come appare nel film, ma forse il film è solo quel che appare. Non c'è introspezione nei prevalenti e folgoranti primissimi piani e particolari, del resto, non c'è prima né dopo, ma avvio in 'medias res' e costruzione circolare: il mondo di Dolan è un acquario tempestoso con un nuovo pesce e disequilibri in arrivo. A scongiurare la tempesta in un bicchier d'acqua è lo stile, che Dolan padroneggia come se davvero non ci fosse un domani ma, aggiungiamo, nemmeno dei personaggi, figurarsi delle persone: gli attori sono splendidi e diretti allo spasmo della proprie possibilità, eppure le loro verità, le loro sensibilità - Cassel fa paura - non hanno mai la meglio sul 'décor', sul 'mélo'. Già, 'È solo la fine del mondo' lotta tra la gravità della storia, ovvero le devastanti relazioni familiari, e il massimalismo del racconto, che prova a scrollarsi di dosso l'eredità teatrale con un mood estetizzante: chi la spunta? Se è indubbio che Dolan giri da Dio, resta da chiedersi per chi lo faccia: per sé o per il film? In questi tempi di visioni pastorizzate ed estetiche pavide, un eccesso di forma è comunque il benvenuto, sebbene lacrime e strappi, emozioni e dolori rischino di rimanere epidermici." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 8 dicembre 2016)
"Piacerà a chi da decenni rimpiange il cinema perduto dei Bergman e dei Bresson e ora si trova finalmente un film girato in paradiso come quello dei grandi antenati. A nemmeno 30 anni il canadese Dolan sembra avere imparato tutto, dai tempi drammaturgici alla direzione degli attori a una sceneggiatura meritevole di essere pubblicata a parte." (Giorgio Carbone, 'Libero', 8 dicembre 2016)
"Con 'Juste la fin du monde' (...) Xavier Dolan porta sullo schermo il suo già sperimentato pessimismo sulla famiglia e i suo i legami. (...) Gli attori sono bravi e Dolan li filma 'comme il faut' ma queste qualità non riescono mai a trasformarsi in emozione, a coinvolgere davvero lo spettatore. E dopo l'originalità e la sincerità delle opere precedenti, qui resta solo l'impressione di una superficiale dimostrazione di bravura." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 20 maggio 2016)
"Non era facile portare sullo schermo 'Juste la fin du monde' (...). Né era facile orchestrare 5 grandi solisti come quelli scelti dal 27enne canadese Xavier Dolan. Ma il regista-prodigio di 'Mommy', che in materia di dinamiche familiari perverse la sa lunga, anziché sfoltire, smussare, areare il testo incandescente di Lagarce, fa l'esatto contrario: carica gesti e parole con un gioco esasperato di primi piani sapientemente scolpiti dal grande operatore André Turpin (...). Rendendo la trama di incomprensioni e risentimenti che mina i rapporti fra Louis e i suoi familiari ancora più terribile e insieme chiarissima, quasi trasparente, da manuale di psichiatria. Insomma una vera riuscita (con due flessioni, un inutile flashback e un'insistita metafora finale), che proietta definitivamente Dolan in campo internazionale. Se il salto è pericoloso lo vedremo in futuro. Per ora ne esce benissimo." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 20 maggio 2016)
"Potendo contare su un cast d'eccezione (...) e sulla pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce, Dolan mette in scena nel suo 'Juste la fin du mond', un inferno domestico scatenato dal ritorno a casa dopo dodici anni di Louis (...). Il regista mette (...) in scena un claustrofobico, concitatissimo, straziante 'kammerspiel' scandito dai primissimi piani degli attori, dialoghi serratissimi che assomigliano a feroci duelli, frasi spezzate o ripetute, improvvise aperture a momenti musicali che alleggerisco il peso di tutto ciò che non viene detto. Non è il miglior film di Dolan, che ci ha abituato a lavori narrativamente più coraggiosi e linguisticamente più sorprendenti, ma il ragazzo ha talento da vendere e il tema, tra i più frequentati dalla settima arte, è uno di quelli che non lascia indifferenti." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 20 maggio 2016)
"II film, francamente, non giustifica l'eccitazione per il testo: i personaggi strillano come ossessi, si insultano, si sfottono e nessuno dei parenti rimasti al paesello sembra avere il minimo interesse per la brutta notizia che Louis reca con sé. L'unica davvero solidale è la cognata che non aveva mai conosciuto. (...) Per fortuna Dolan è un regista troppo bravo per cadere nelle trappole del teatro filmato: le evita in due modi, uno irritante l'altro bellissimo. Sta con la macchina da presa sempre a due centimetri dal volto degli attori, il che sottolinea tutti i tic della recitazione e comunica un soffocante senso di claustrofobia; poi, ogni tanto, parte per spettacolari tangenti musicali, mette un disco ed esce dal salotto di casa per viaggiare nello spazio. In quei frammenti si conferma come un potenziale, straordinario regista di video-clip, cosa che per altro ha già fatto (...)." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 20 maggio 2016)
"(...) Dolan è un talento naturale. Bravissimo, forse troppo. Perché il suo talento e la sua fecondità (a 27 anni prepara il settimo lungometraggio) rischiano di impedirgli di diventare il grande regista che potrebbe essere. In 'Juste la fin du monde' prova una strada obliqua, e adatta la pièce di Jean-Luc Lagarce (...). Conflitti, tenerezze insostenibili e psicodrammi. (...) Il dramma (piccolo) borghese è deformato dal grottesco ma anche straziato da aperture nostalgiche, quasi elegiache. La regia è implacabile, tutta primi piani serratissimi, con gran uso della musica e degli attori. Ma incappa in alcuni scivoloni (brutti flashback, un simbolismo banale nel finale) e quasi rischia di soffocare quel che di vero palpita sotto." (Emiliano Morreale, 'La Repubblica', 20 maggio 2016)
"La definizione di enfant prodige attribuitagli quando nel 2009 non ancora ventenne stupì Cannes con il suo primo film (...) non sembra pesare a Xavier Dolan. Con 'Juste la fin du monde", opera sei, (...) il giovane regista canadese risponde alle aspettative sorprendendo ancora. La tensione estetica resta alta e il virtuosismo linguistico (ammirato da alcuni e denigrato da altri) stupefacente, nonostante che Dolan abbia scelto questa volta un testo teatrale quanto mai denso (...) e abbia ottenuto la disponibilità di cinque attori di fama (...). Inferiorità, frustrazioni, sopraffazioni che da sempre nutrono le relazioni, soosffocando qualsiasi moto d'affetto che pur sembra esistere, vengono catalizzate dalla presenza di questo figlio prodigo all'incontrario (...). Girato in primissimi piani (come fosse la risposta del regista al teatro) con la macchina da presa che, insieme alle parole spezzettate, ai furori, al luccichio degli occhi, cattura anche l'anima divorata, di volta in volta, dalla paura, dalla rabbia o dalla nostalgia, 'Juste la fin du monde' mette bene in mostra l'estro e l'abilità di Dolan, uno dei pochi capaci oggigiorno di trasformare i film in cinema. Non sari facile nemmeno per i giurati scrollarsi di dosso l'immagine di questo quintetto dove tutti sono incapaci di vedere per eccesso di sguardi e di comunicare per bulimia i suoni." (Andrea Martini, 'Nazione-Carlino-Giorno', 20 maggio 2016)
"(...) appassionante esercizio di stile dove regia, montaggio, uso della musica e direzione degli attori (il gotha della cinematografia francese, da Vincent Cassel a Marion Cotillard, da Léa Seydoux a Nathalie Baye) compongono un inno al cinema-cinema, quello capace di scrivere emozioni con la macchina da presa (...)."(Fulvia Caprara, 'La Stampa', 20 maggio 2016)
"(...) 'Juste la fin du monde' (...) ha i pregi e i difetti delle opere teatrali trasformate in film. E' una bella prova di attori (...) ma il testo uccide la messa in scena. I flash back non ce la fanno a dare un'idea del pregresso, il dover comunque sacrificare parte del testo originale toglie chiarezza. La sensazione, più che di incomunicabilità è di confusione, la difficoltà di esprimere i sentimenti assume l'aspetto di una rissa, la ritrosia del trentenne protagonista arrivato lì per celebrare la cerimonia degli addii si muta in afasia... Mentre il pranzo continua si vorrebbe già essere al funerale." (Stenio Solinas, 'Il Giornale', 20 maggio 2016)
"(...) in questo interno piccolo borghese con massacro, domina il vuoto dell'isteria formale. Dolan, visibilmente indifferente ai personaggi, utilizza la situazione per compiacere il suo virtuosismo privo di una qualsiasi verità a sostenerlo. Per quasi due ore alterna clip, musica, estenuanti prove di attori monotono - specie le urla di Cassel. Isola i personaggi in una serie di primissimi piani, esibizione della solitudine contemporanea che tanto lo seduce, e soffoca lo spettatore con l'intento di metterlo nella stessa condizione del suo protagonista, ma è troppo preoccupato da se stesso per riuscirvi." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 21 maggio 2016)