In Jugoslavia un treno in aperta campagna improvvisamente si arresta: l'anziano macchinista, da venti ore senza cambio, si è messo in sciopero. I viaggiatori riparano nella vicina locanda, dove si trova là un patetico trio di musicanti di cui fa parte anche Ana, che Vita, un parente del padrone ospita nella propria cameretta. Nell'attesa dell'arrivo della commissione che il macchinista ha chiamato per telefono a decidere il suo caso, gli sfortunati viaggiatori mangiano, bevono e ascoltano antiche canzoni popolari, che Ana intona accompagnata da una chitarra ed una tromba. I guai arrivano quando entra nella locanda Gara, proprietario di vaste coltivazioni di luppolo e prepotente ras della zona. Vita lo conosce da tempo (erano ragazzi insieme), ma prudentemente se ne sta da parte. Gara stuzzica la gente, la impaurisce, poi sottopone i musicanti ad un gioco stressante, richiedendo che una sola canzone (La vita è bella) sia ripetuta ossessivamente ora lenta, ora con un ritmo pazzesco, umiliando i tre artisti. Per rompere l'atmosfera, Vita riesce a portare fuori in jeep Gara e il suo scagnozzo per scorrazzare all'aperto (e, nell'occasione, lo scagnozzo cerca per strada di usare violenza a una donna, che tentava di andare in città per le prove di un concorso). Ormai è calata la sera. Molti dei malcapitati viaggiatori sono riusciti a salire, a scaglioni e a caro prezzo, su di un piccolo furgone che rifornisce di pollame la locanda, dove un'importante cena di affari è prevista per i burocrati della regione. Tra il cibo e il vino, corrono fra i commensali intese e intrallazzi vari. Gara vende il suo luppolo per una grossa somma, grazie alla corruzione che inquina anche il più alto e riverito funzionario locale. Poi fa cantare Ana che, volgarmente truccata da una della locanda, si produce in canzoni anche sguaiate. Il vecchio macchinista, sempre più in attesa della commissione, viene bizzarramente invitato al festino, ma ne è disgustato e piomba a terra per un malore mortale. Vita assiste impotente a tutto ciò: egli comprende bene ciò che accade, valuta comportamenti e compromessi (per lui - oppositore tenace - non sono che penose conferme) ma allorché, spente le luci, Gara porta la ragazza in camera e ne approfitta, pronto a passarla a tutti gli amici che attendono in coda alla porta, scatta alla fine e fa una strage. Poi fugge attraverso la campagna, riservando a se stesso l'ultimo colpo di rivoltella e troncando così una vita amara e delusa.
SCHEDA FILM
Regia: Boro Drascovic
Attori: Predag Lakovic, Dragan Nikolic - Gara, Ljubisa Samardzic, Sonja Savic - Ana, Rade Serbedzija - Vita, Velimir 'Bata' Zivojinovic, Pavle Vujisic, Milan Erak
Sceneggiatura: Boro Draskovic, Maja Draskovic
Fotografia: Bozidar Nikolic
Musiche: Vojislav Zafranovic
Montaggio: Andrija Zafranovic
Scenografia: Milenko Jeremic
Costumi: Maja Draskovic
Altri titoli:
La vita è bella
Life Is Beautiful
Durata: 104
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: PANORAMICA
Tratto da: Da un racconto di Aleksandar Tisma
Produzione: UNION FILM BEOGRAD
Distribuzione: MEDUSA DISTRIBUZIONE (1988)
CRITICA
"Il titolo del film si rifà a una canzoncina che sottolinea ironicamente le contraddizioni fra il ricorrente 'Leitmotiv' e una situazione che peggiora con il passar del tempo e alla quale non c'è rimedio. Coraggiosa allegoria delle incertezze, delle inquietudini, delle tensioni e delle traversie della Jugoslavia d'oggi, 'E... la vita è bella' è un film aspro e duro, crudele, straziante, che anticipa di qualche anno la perestrojka e ne precorre i tempi, senza però contornarsi di quelle attese e di quel fiducioso consenso che in Urss e altri Paesi socialisti accompagnano la svolta di Gorbaciov. Lucido e corrosivo, amaro implacabile, il film di Boro Draskovic (nato nel 1935 a Sarajevo, laureato in filosofia e lingua tedesca all'Università di Belgrado, specializzatosi in Polonia e negli Stati Uniti) è un atto d'accusa e un esame di coscienza nello stesso tempo: un invito offerto affinché la Jugoslavia si scuota dal pesante terrore che la paralizza, compromettendone la stessa sopravvivenza. Non a caso uno dei forzati ospiti della locanda a un certo punto esclama: 'Da noi, quando qualcosa si ferma, si ferma per sempre'." (Enzo Natta, 'Famiglia Cristiana', 27 Luglio 1988)
"Per Draskovic questa storia è soprattutto un pretesto narrativo. Per dirci, appunto, di come si può vivere oggi in un Paese socialista, per farci sentire quante cose si stiano sgretolando, quante stiano arrivando alla fine. Senza cadere mai nel didascalico, però, anzi tenendo sempre la polemica a livelli di cronaca dal vivo: durissima, dolorosa, impietosa. Con accenti drammatici che in molti momenti toccano il diapason, con lacerazioni violente, con un disegno dei singoli personaggi che, nonostante la coralità dell'azione, consente sempre approfondimenti psicologici sottili e risentiti e, soprattutto, all'interno di un clima torvo, cupo, frustrante che a poco a poco serra alla gola lo spettatore: sia per l'impatto con cui gli si propone sia per il coraggio con cui un Paese in cui certe autocritiche fino ad oggi si evitavano, mette a nudo con forza delle piaghe sociali tremende. Dà rilievo a questo clima una fotografia (di Bozidar Nikolic) che veste sia gli interni in cui la vicenda si svolge sia i desolati esterni della Vojvodina che le fanno da cornice di luci addirittura spettrali, disperate, sinistre. Ritrovando nei colori e nella composizione delle immagini la stessa desolazione di tutto il film. E così gli interpreti (Ljubisa Samardzic, Sonja Savic, Rade Serbedzija): facce spesso tagliate nel legno, incise, ferite. Simbolo scoperto di una condizione umana in sfacelo." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 19 Giugno 1988)
"Boro Draskovic, regista non più giovane (è nato nel 1935 a Sarajevo) autore di una dozzina di film, non va tanto per il sottile nella conclusione, ma occorre riconoscergli una mano vigorosa nel tratteggio dei personaggi e nell'orchestrazione dell'angoscia. Usando quella locanda come una sorta di laboratorio sperimentale, il cineasta analizza il comportamento umano mettendolo in relazione allo sfascio dello Stato. Difficile dire se la sua è una critica 'da sinistra' o 'da destra', pare di capire che a Draskovic interessi più l'intima corruzione dei sentimenti e degli ideali, il frantumarsi delle utopie, il degradarsi della convivenza civile. Certo un film che avvince e turba, il lucido grido d'allarme di una coscienza inquieta che recenti fatti jugoslavi (pensate ai conflitti etnici nel Kossovo) non hanno per nulla invecchiato." (Michele Anselmi, 'L'Unità', 21 Giugno 1988)