Holot è un centro di detenzione situato nel deserto di Israele, vicino al confine con l'Egitto. In questo luogo sono rinchiusi i rifugiati in cerca di asilo provenienti da Eritrea e Sudan, che non possono essere rimpatriati e che non hanno prospettive in Israele. Tecnicamente non è una prigione, ma l'appello fatto tre volte al giorno e la posizione isolata ne fanno virtualmente uno. Chen Alon e Avi Mograbi hanno deciso di avviare all'interno del centro un laboratorio teatrale seguendo i principi del "Teatro dell'Oppresso", che si propone come percorso estetico per un cambiamento politico e sociale, partendo dalla messa in scena della quotidianità dei richiedenti asilo. Questo tipo di approccio permette ai rifugiati di far conoscere le proprie esperienze di migrazione forzata e discriminazione e allo stesso tempo di confrontarsi con la società israeliana che vede in loro dei pericolosi infiltrati. La comparsa di alcuni israeliani cambia le dinamiche. Attraverso giochi di ruolo e cambiamenti di prospettiva è possibile sviluppare una comprensione più profonda di altri punti di vista? Questa è una delle domande che si pone un film pieno di quesiti ancora senza risposta.
SCHEDA FILM
Regia: Avi Mograbi
Soggetto: Avi Mograbi
Fotografia: Philippe Bellaiche
Musiche: Noam Enbar
Montaggio: Avi Mograbi
Suono: Avi Mograbi
Altri titoli:
Between Fences
Durata: 85
Colore: C
Genere: DOCUMENTARIO
Specifiche tecniche: DCP (1:2.39)
Produzione: AVI MOGRABI, CAMILLE LAEMLE PER LESFILMSD'ICI
NOTE
- PRESENTATO AL 66. FESTIVAL DI BERLINO (2016) NELLA SEZIONE 'FORUM'.
CRITICA
"Siamo in una storia tipicamente novecentesca e tipicamente ebraica. Siamo davanti alla porta della giustizia di Kafka - che non è fatta per entrare ma per aspettare. Siamo in Israele, nella terra fondata da rifugiati europei. Siamo davanti a degli uomini che non vengono dalla nazione promessa ad Abramo ma che si trovano in una situazione che ogni Israeliano dovrebbe capire. O meglio, che dovrebbe intuire ancora prima di capire. Il nostro geroglifico, così confuso e astruso, dovrebbe apparire chiaramente alla vista dello spirito o, se si vuole, del cuore: quell'eritreo, quel sudanese, che cerca asilo sono io. Ecco il problema perché questo processo di riconoscimento non avviene? Nella prima parte, è chiaro che Avi sembra ritenere che causa vada cercata in una mancanza di lucidità e di trasparenza. Se l'intuito non funziona, allora bisogna aiutare la ragione. Ecco che il teatro viene in aiuto. Mograbi e il regista teatrale Chan Alon mettono in piedi un laboratorio. Il progetto è quello di far interpretare ai rifugiati di oggi storie di rifugiati di ieri (gli ebrei durante gli anni trenta). Il presupposto è che, attraverso questo scambio, lo spettatore possa superare l'apparenza e cogliere l'essenza della verità: loro sono noi. (...) II primo errore consiste a pensare che basta capire per sentire. II secondo è quello di imboccare la strada inversa, altrettanto ingenua: basta sentire per capire. È indubbio che Avi sia molto implicato - con il cuore - nella condizione di questi rifugiati. Ma come distinguere l'empatia dalla soddisfazione di sé? (...) E il nostro geroglifico ? Non è detto che alla fine del film venga sbrogliato. Forse, al contrario, il film lo fa diventare ancora più intricato. È quello che impressiona e strappa l'ammirazione in Avi Mograbi: i suoi film sono una vera scuola filosofica, non risolvono i problemi che pongono ma insegnano perché bisogna diffidare delle proprie risposte." (Eugenio Renzi, 'Il Manifesto', 17 febbraio 2016)